«Ho vinto la guerra e la Spagnola» – di Ettore Zendri
La storia di Francesco De Peppo, un ragazzo del ’99 che si ammalò sullo Zugna e visse per 92 anni
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Da quando gli esseri umani hanno iniziato a organizzarsi in società, creando nuclei di persone conviventi nello stesso spazio, le malattie contagiose hanno assunto il loro ruolo nell'esistenza dell'umanità e quando è capitato che si diffondessero rapidamente nei vasti territori abitati, sono divenute pandemie che hanno cambiato il corso della storia.
Si ricordano la peste ateniese del 430-426 a.C. che provocava da 70 a 100 morti, la peste di Giustiniano nell'Impero bizantino dal 541-542 fino al 750 d.C., che uccideva dai 50 ai 100 milioni di persone e nella stessa Costantinopoli, il 40% della popolazione.
La peste nera della metà del XIV secolo, una delle più grandi della storia, tanto che la popolazione europea era scesa da 80 a 30 milioni e, della quale, solo cinque secoli più tardi, si scoprirà la sua origine animale e il suo collegamento con i ratti che abbondavano nelle urbe di allora.
Il vaiolo, diffusosi in Europa nel XVIII secolo, infettando e sfigurando milioni di persone, aveva decimato fino al 30% della popolazione mondiale. E infine l'influenza spagnola, dove il primo caso veniva registrato nel marzo 1918 in un ospedale degli Stati Uniti che farà cirrca 50 milioni di vittime in tutto il mondo (600.000 solo in Italia) e sarà portata in Europa proprio da quei soldati americani che venivano per aiutare l'Intesa, al fianco dell'Italia per porre fine alla Prima guerra mondiale.
Altre epidemie nella storia hanno avuto un'estensione continentale, specie nelle città dell'Europa medievale, sporche e sovraffollate; o, in tempi più recenti, in Asia, ma non più a livello mondiale, fino al 2020, quando si è presentato il nuovo Coronavirus (SARS-coV2 il suo nome scientifico).
Cent'anni dopo ci risiamo e allora diventano attuali più che mai le riflessioni scritte nel suo diario dall'artigliere Francesco De Peppo, diciannovenne liceale di Napoli, chiamato a combattere in Vallarsa, sul Monte Zugna.
Francesco è uno dei ragazzi del '99 chiamati a combattere negli ultimi mesi della Prima guerra mondiale. Il 16 marzo 1918 parte per il fronte del Trentino e viene inviato sul Monte Zugna a calcare i passi degli eroi del trincerone e della battaglia delle Termopili di Passo Buole, di due anni prima.
In lui, è struggente il ricordo del fratello Mario, sottotenente di fanteria, medaglia d’argento, caduto in combattimento il 29 maggio 1916 al Pianoro di Maso in Val Posina, sotto le pendici orientali del Pasubio, e gli è insopportabile l’angoscia per il fratello Giovanni, Capitano di artiglieria fatto prigioniero dagli austriaci a Caporetto.
«12 ottobre 1918. Mi sveglio la mattina pieno di dolori e con un freddo fortissimo. Vado a pigliare calore vicino alla stufa. Mi danno il rancio, ma mi disgusta. Mi mettono il termometro: 39 e mezzo.
«Non si può mai star bene, o l’una o l’altra. Al fronte il morale giù, e benissimo di salute, qui che il morale s’era risollevato, il fisico s’ammala.
«Ho una paura indemoniata che sia Spagnola.»
Il suo diario è uno scrivere con toni rassegnati dove si sofferma a descrivere gli episodi quotidiani della vita al fronte, in mezzo a scarafaggi e topi attirati dalle scarse condizioni igieniche, portatori di malattie che si diffondevano velocemente nelle malsane e affollate trincee.
I topi si nutrivano dei cadaveri in decomposizione lasciati sul campo di battaglia, nella terra di nessuno, e rosicchiavano i sacchi contenenti la farina nelle cucine da campo; portatori di pidocchi, virus e batteri, erano anche i responsabili della «febbre da trincea».
Sullo Zugna, Francesco ha la febbre alta, così viene condotto all'ospedale di Bovolone presso Verona:
«Mi conducono, col carro della spesa, a Bovolone, e di lì all’ospedale, dove mi visita un Tenente medico. Spagnola. Il termometro sale a 40 - 40 e 5 - 40 e 9. Polmonite.
Il mio stato s’aggrava, il Capitano medico non tiene più speranza.
«Il terzo giorno vuole fare il telegramma urgente ai miei per farmi salutare prima del gran viaggio; io lo prego di non farlo. Peggioro, comincia il delirio. Mi fanno fare i sacramenti. Non voglio morire. Muore il mio compagno di destra. Lo portano via in barella.»
È ormai rassegnato agli eventi, dove assiste impotente, seppure con una certa ironia:
«Assisto a tutto lo spettacolo, credendo che lo stessero facendo a me. Mi pizzico, mi sporgo dal letto… no, hanno preso realmente l’altro.
«Li vedo riavvicinarsi con la barella, credo che vengano a prendere me; m’immagino d’essere chiuso vivo in una bara, mi sento perduto… e grido: No, no, sono ancora vivo, non prendetemi.
«S’avvicina il Capitano e mi accarezza, poi… non ricordo più nulla.»
Rimane incosciente per alcuni giorni, anche lui vittima della febbre spagnola che iniziava a mietere le sue vittime anche sulle montagne del Trentino. Dalla Spagna, che era rimasta neutrale al conflitto, ne aveva preso il nome solo perché i giornali spagnoli erano stati i primi a parlarne.
«Sento parlare dopo del tempo; un giorno, due giorni? chissà! È il Capitano che dice all’infermiere che non c’è nulla da fare per me, che forse non vedrò l’alba.
Dio mio, sentire tutto, e rimanere così, senza poter far niente, senza potermi ribellare contro la morte. E l’alba si avvicina. E cerco di rassegnarmi, e prego e piango. Sono le sei, suonano le sette e sono ancora in vita. Perché?»
Le cure erano inefficaci e solo alcuni anni più tardi i ricercatori capiranno che si trattava di un virus; inizialmente i medici erano convinti fosse di origine batterica. Pare che un gruppo di ricercatori, recuperando il virus da alcune vittime i cui corpi erano rimasti congelati nei ghiacciai, avrebbero scoperto che la trasfezione negli animali, ossia l'ingresso di materiale genetico (tra cui il DNA esogeno) in cellule riceventi, causava una rapida insufficienza respiratoria fino alla morte, a causa di un'eccessiva reazione del sistema immunitario dell'organismo.
«Richiudo gli occhi e aspetto. Penso alla mia cara famiglia, che mi credono ora al sicuro, e invece… È orribile, è atroce il mio strazio. Mario! Perché non mi aiuti?
«È questo sento dire vicino a me. Apro gli occhi, e vedo un Colonnello col Capitano.
«E facciamolo il salasso. È il Colonnello che parla. Ma come, penso, neanche morire in pace si può sotto le armi?
«E quel poveretto veniva invece a salvarmi. Mi scoprirono il braccio destro, e con un bisturi mi aprirono una vena nella piegatura.»
Come prime misure precauzionali contro il contagio, veniva chiesto di indossare delle maschere di tessuto, mentre in pubblico era vietato l'accesso a chiese, teatri e altri luoghi pubblici, oppure l’accesso ai tram presenti nelle grandi città, per paura che i batteri potessero diffondersi. Era persino in vigore il divieto di tossire e starnutire in pubblico e i funerali duravano 15 minuti.
Alcuni opuscoli suggerivano di masticare il cibo con attenzione, mangiare cipolle a tutti i pasti ed evitare di indossare vestiti e scarpe stretti.
I rimedi casalinghi, invece, prevedevano gargarismi a base di bicarbonato di sodio e acido borico, oppure impacchi di sale nelle narici. Nonostante tutte quelle precauzioni, talune inutili, la spagnola mieteva circa 650.000 vittime in Europa solo tra la popolazione civile.
«Neanche una goccia di sangue: Ha visto Signor Colonnello? Apriamogliene un’altra. Altro colpo di bisturi. Timida, dalla ferita, si affaccia una goccia di sangue che sembra inchiostro, resta per pochi momenti sul braccio, e quindi cade in una catinella messa positivamente per raccoglierla; ne segue un’altra, un’altra, finché non esce a zampillo il sangue riempiendo a metà il recipiente (più di mezzo litro).
«Stanno per richiudere la vena, quando comincia a girare tutto intorno a me, sento un sordiglino all’orecchio che diventa sempre più forte ed insistente, comincio a vedere ombrato e svengo.
«Resto svenuto un paio d’ore. Nel risvegliarmi, mi sento alquanto meglio: mi mettono il termometro, e segna ancora più di 40. La mattina appresso 39, mi visita il Capitano, e mi trova molto migliorato, dicendomi che ora spera nella guarigione. La sera 38 e mezzo, poi 38; mi dicono che sono fuori pericolo, grazie al salasso.»
Paradossalmente, il tasso di mortalità era più elevato nelle persone sane e di giovane età tra 15 e 34 anni, che negli anziani, a causa dei fisici più forti che creavano forti reazioni immunitarie, mentre le circostanze legate alle condizioni disumane della guerra, come la scarsa igiene, la malnutrizione, l'affollamento in luoghi malsani come le trincee e gli ospedali sovraffollati, contribuivano a fare il resto.
Nel frattempo, la guerra sta per finire e il nostro Francesco inizia a fare i primi passi:
«Mi son visto in uno specchio, e credevo quasi che riflettesse qualcun altro. Sono lo scheletro di quello che ero una volta.
«M’accappotto ben bene, e accompagnato dall’infermiere, sotto al braccio, mi trascino alla nuova dimora. Come mi tremano le gambe, e quanta luce per strada, che fastidio che mi da il movimento della strada. Compro un giornale Grande offensiva su tutto il fronte, gli Austriaci indietreggiano in fuga disordinata, lasciando tutto sul loro cammino. Si arriverà a Trento? Che fosse realmente la fine della Guerra?»
4 novembre 1918.
«La mattina appresso mi svegliano grida, spari che salgono dalla strada. Che mai è successo? Sembra quasi come se fossero giunti gli Austriaci: V'è il finimondo! Alzo la testa dal letto. Sembrano tutti impazziti.
«Chi si butta cuscini in faccia lì in camerata, chi grida e ride, chi piange, chi butta brande all’aria. Che cosa è successo? La Guerra è finita, è vinta!.... Trento è nostra, pigliata dalla fanteria e dalle artiglierie, tra cui una delle prime ad entrare è stata la mia Batteria.... Trieste è italiana!»
Già, la guerra è finita ed è vinta anche da Francesco che ha fatto la sua parte con impegno ed onore ed ha pure vinto la spagnola ed ora può rinascere a nuova vita.
Scritto con un'impeccabile scrittura da liceale e una profonda maturità, se pensiamo che si tratta di un ragazzo appena diciannovenne che non aveva mai visto gli strapiombanti pendii delle montagne trentine, il suo diario è contraddistinto da una velato umorismo anche nei momenti più tragici; perfino di fronte alla morte riesce a ridere di se stesso e questo dà la dimensione del popolo italiano, abituato a millenni di guerre e sciagure affrontate con tenacia, un popolo che sa sempre trarre da ogni sventura le migliori virtù.
Un insegnamento per questi tempi, più difficili per la resistenza psicologica che non per quella del fisico, che deve far riflettere le giovani generazioni non più abituate a restrizioni e privazioni di libertà di ogni sorta.
Il De Peppo, custodirà gelosamente il suo diario fino alla morte, giunta all'età di 92 anni nel 1991, quando verrà trovato dalla moglie e dai figli. Sebbene nel dopoguerra, per alcuni anni, avesse fatto servizio come funzionario alla dogana del Brennero, non metterà mai più piede sullo Zugna e, di quegli otto mesi di guerra, non ne farà mai parola con nessuno.
Ettore Zendri
Rovereto
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