La morte del Mullah Mansour e la nuova leadership talebana
La Shura (il consiglio degli anziani) punta su Akhunzdada, leader dall’enclave storica dell’insorgenza (Kandahar) e integralista della Sharia – DI Francesca Manenti
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Sabato 21 maggio il leader dei talebani, Mullah Ahtar Mansour, è rimasto ucciso in un attacco condotto da un drone statunitense nella provincia pakistana del Balochistan.
Lo strike aereo ha colpito l’auto sul quale si trovava il Mullah nei pressi della città di Ahmad Wal (distretto di Naushki) a circa 200 chilometri da Quetta.
Se, in un primo momento, la vicinanza al confine con l’Afghanistan avesse lasciato presupporre che Mansour avesse da poco attraversato la frontiera dalla provincia di Kandahar (sua regione natia), non è da escludere che il leader talebano fosse invece in transito sulla strada provinciale N40, che collega la città di Quetta con la località di Taftan, unico valico di frontiera ufficiale verso l’Iran.
Non sarebbe la prima volta, infatti, che esponenti talebani abbiano cercato un dialogo con le autorità di Teheran.
Già nel maggio 2015 una delegazione dell’ufficio di rappresentanza dell’Emirato Islamico d’Afghanistan in Qatar, capeggiata da Tayab Agha, era giunta in Iran per sondare l’eventuale disponibilità iraniana di concedere all’insorgenza un rifugio all’interno dei propri confini nazionali.
Sebbene la richiesta fosse finita in un nulla di fatto, l’incontro ha messo in evidenza l’interesse di alcuni ambienti iraniani, verosimilmente all’interno degli apparati di sicurezza, di aprire, o rispolverare, un canale di comunicazione con una realtà, quale quella talebana, di fondamentale importanza per l’evoluzione degli equilibri al di là del proprio confine orientale.
Tale volontà sembrerebbe trovare conferma nell’apertura dimostrata da rappresentati delle autorità iraniane ad incontrare, nell’ottobre 2014, Abdul Qayum Zakir, ex comandante militare talebano, allora in rotta con la Shura di Quetta per questioni di potere (e dunque senza posizioni ufficiali all’interno della leadership politica) ma con forti legami con i nuclei di miliziani sul terreno, soprattutto nelle regioni del sud e dell’ovest del Paese.
In un momento in cui proprio le divergenze interne all’insorgenza stavano portando diversi comandanti militari talebani a subire sempre più il fascino di Daesh in Medioriente2, la disponibilità di Teheran a riprendere i contatti con la militanza potrebbe rispondere all’interesse iraniano di scongiurare che la concorrenza tra le diverse anime dell’insorgenza talebana potesse tradursi nella nascita di una nuova realtà jihadista alla porte di casa.
In particolare, sembrerebbe che le autorità iraniane fossero disposte a concedere ai militanti cure mediche e supporto logistico in cambio dell’interruzione di qualsiasi contatto con i network jihadisti regionali.
Sebbene il progetto di creare una branca dello Stato Islamico in Afghanistan sia poi risultato incompatibile con la natura del tessuto sociale afghano, in cui il modello politico proposto dal Califfato si scontra di fatto con i consolidati rapporti di potere della struttura etno-tribale, Teheran potrebbe aver guardato al mantenimento di un dialogo con la militanza, questa volta con la leadership politica, come ad un’opportunità per gestire anche altre tematiche di primario interesse per la sicurezza interna, quali la gestione dei flussi di rifugiati afghani e il traffico di droga lungo la frontiera comune.
Se, dunque, non è possibile escludere che ci sia stato effettivamente un contatto tra il Mullah e Teheran, l’elemento di maggior novità legato alla morte del leader talebano è rappresentato dal fatto che gli Stati Uniti, per la prima volta, abbiano condotto lo strike nel Balochistan, vero santuario degli alti ranghi talebani.
Fin dal 2004, infatti, anno in cui la Casa Bianca ha approvato il programma di utilizzo dei droni per operazione di targeting contro esponenti di spicco di al-Qaeda e dell’insorgenza talebana, gli attacchi condotti in territorio pakistano sono sempre avvenuti nel nord-ovest del Paese, nelle Aree Tribali (Federally Administrative Tribal-FATA) o nella provincia di Khyber Pakhtnkhwa, luogo di rifugio per i membri di entrambi i gruppi e retroterra logistico ideale per le operazioni condotte poi oltre il confine afghano.
Il governo statunitense, infatti, ha sempre considerato prioritario eliminare i comandanti militari che rappresentavano una minaccia diretta per la sicurezza delle Forze internazionali impegnate in Afghanistan piuttosto che decapitare i vertici politici dell’insorgenza, di fatto indispensabili per ipotizzare un dialogo talebani-Kabul.
Ciò ha da sempre consentito alla leadership non solo di trovare un indisturbato rifugio a Quetta, ma anche di strutturare una vera e propria rete capillare di contatti, tanto da fare del Balochistan un’area di fondamentale importanza per l’insorgenza.
Ad oggi, la rete di facilitatori a disposizione dei talebani si estende ben oltre l’area circostante il capoluogo di provincia e arriva ad includere città quali Zhob, Killi Nalai, Qila Saifullah, Loralai, Chaman, Pishin, Kuchlak, Ahmad Wal, Dalbandin, Chagai e Girdi Jangal, fondamentali per le attività di reclutamento e addestramento dei militanti, nonché di pianificazione ed organizzazione delle operazioni in territorio afghano.
Tuttavia, in un momento in cui la forza dell’insorgenza in Afghanistan è soverchiante rispetto alla capacità di risposta delle Forze di sicurezza afghane e i successi ottenuti sul campo hanno permesso ai talebani di estendere in modo significativo il proprio controllo in molti distretti (anche al di fuori delle tradizionali enclave nel sud e nell’est del Paese), il pericolo che le operazioni della militanza rappresentano anche per le Forze statunitensi ancora presenti nel teatro afghano sembra aver spinto la Casa Bianca ad eliminare Mansour per lanciare un segnale forte a Quetta.
Fin dal suo insediamento, lo scorso agosto, l’ex Emiro si era sempre dichiarato fortemente contrario a qualsiasi negoziato con il governo di Kabul e, di contro, aveva predisposto una fitta campagna militare, all’interno della così detta offensiva di primavera, tale da rendere difficilmente gestibile la sicurezza non solo nelle aree rurali, ma anche all’interno delle zone più sensibili della stessa capitale.
In questo contesto, la scelta di eliminare il leader talebano sembrerebbe rispondere al tentativo degli Stati Uniti di imporre una battuta d’arresto, seppur temporanea, all’avanzata della militanza e indurre i vertici politici a prendere nuovamente in considerazione la possibilità di sedersi al tavolo negoziale con le autorità di Kabul.
La strategia di Washington potrebbe essere stata agevolata dal delicato momento di tensione interna che l’insorgenza sta attraversando dalla scorsa estate.
Mansour, infatti, è sempre stato una figura molto contestata all’interno della cerchia talebana: la sua nomina a successore dello storico fondatore del movimento, il Mullah Omar, aveva provocato diversi malcontenti, sia tra alcuni comandanti militari sia tra membri delle gerarchie politiche che ne contestavano la legittimità.
Tra questi Muhammed Rasoul, ex governatore della provincia di Nimroz durante il governo talebano (1996-2001), nonché seguace di Omar dai tempi della guerra contro l’URSS, che nel novembre 2015 ha raccolto introno a sé alcuni comandanti locali (soprattutto provenienti dalle province occidentali) e ha annunciato la nascita dell’Alto Consiglio dell’Emirato Islamico d’Afghanistan, una fazione alternativa alla Shura di Quetta che rivendica di rappresentare la leadership legittima del movimento.
Una posizione meno netta, ma ugualmente critica, è emersa anche all’interno della stessa Shura di Quetta e dell’ufficio politico di rappresentanza (in Qatar), da esponenti che, seppur non abbiano preso le distanze dal vertice, hanno comunque espresso la propria contrarietà alla nomina di Manosur.
Si tratta per lo più di figure di spicco che avevano occupato posizioni di rilievo durante il governo talebano e legate per questo a doppio filo alla figura di Omar.
Una sorta di vecchia guardia politica che, di fatto, sembra aver interpretato l’ascesa di Mansour come il risultato di un abile gioco di potere più che l’espressione legittima della volontà del movimento.
Infatti, braccio destro di Omar già dal 2010 e coordinatore de facto del movimento da tre anni a questa parte (dopo la morte, non dichiarata, del suo predecessore), l’ormai ex Emiro è stato accusato di aver progressivamente nominato in posizioni chiave all’interno dell’insorgenza rappresentanti della sua stessa tribù (Ishaqzais), per rafforzare i consensi introno al proprio operato ed estromettere possibili contendenti alla leadership.
Per la prima volta dalla sua fondazione, dunque, il movimento si è trovato a dover gestire la mancanza di coesione interna e il conseguente pericolo di un possibile smembramento della propria struttura.
Benché i successi conseguiti dalla militanza nell’ultimo anno contro le autorità afghane avessero contribuito a riassorbire parte dei malcontenti, l’efficacia e la solidità del gruppo erano, di fatto, messe a repentaglio dalle latenti tensioni e diffidenze tra il vertice e i quadri intermedi.
Un primo segnale di tale debolezza sembrerebbe essere rappresentato proprio dalla morte di Mansour, in occasione della quale l’alto numero di detrattori del leader potrebbe aver generato falle nel sistema di sicurezza delle reti talebane e una fuga incontrollata di notizie che, intercettate dalle agenzie di intelligence e dei servizi di sicurezza statunitensi, potrebbero essere state utilizzate come preziose fonti per la pianificazione dell’attacco.
La consapevolezza da parte delle alte gerarchie del pericolo che queste tensioni interne rappresentano per la tenuta del gruppo nel lungo periodo e l’importanza di ritrovare una coesione interna sembrano aver giocato un ruolo fondamentale nella scelta della nuova leadership.
Lo scorso 25 maggio, infatti, la Shura talebana ha eletto all’unanimità come nuovo Emiro Haibatullah Akhundzada, già capo del sistema di giustizia del movimento e primo vice di Mansour durante la sua reggenza.
Stimato membro del clero, il nuovo Emiro è sempre stato in contatto con la cerchia di riferimento del Mullah Omar, con il quale condivideva la provenienza geografica (è originario della provincia di Kandhar e, in particolare, del distretto Panjwayi).
Inoltre, Akhundzada ha per molti anni insegnato giurisprudenza islamica e coranica ai giovani studenti nell’area di Kuchlak, a Quetta, incarico che, di fatto, gli ha permesso di diventare una sorta di mentore per l’attuale generazione e le nuove leve di militanti.
Privo di una qualsiasi esperienza operativa o di diretto comando, il nuovo leader sembra essere stato scelto perché rappresenta un’ideale anello di congiunzione tra la vecchia guardia dell’insorgenza (quell’entourage fedele e nostalgico del Mullah Omar) e i comandanti più giovani, che guardano a lui, grazie alla sua alta formazione religiosa, un legittimo interprete della Sharia e, dunque, di leader spirituale per la militanza.
La nomina di Akhunzdada, dunque, rispecchia un atteggiamento profondamente conservatore della Shura, che ha puntato su un leader proveniente dall’enclave storica dell’insorgenza (Kandahar) e promotore di un’interpretazione integralista della Sharia, il cui spessore ideologico e spirituale lo renda di fatto arbitro indiscusso, e non giocatore, delle competizioni per il potere.
La volontà di ripristinare un solido equilibrio interno è emerso anche nella scelta delle due cariche ancillari rispetto a quella di Emiro, per le quali sono stati scelti Sirajuddin Haqqani (già numero tre della precedente leadership), quale braccio destro di Akhunzdada, e Muhammad Yaqoob in qualità di secondo vice.
Benché nelle ore immediatamente successive alla morte di Mansour alcune indiscrezioni avessero paventato la possibilità che Sirajuddin potesse prendere la guida del gruppo, in realtà tale ipotesi è sempre stata alquanto improbabile.
Da un lato, perché gli Haqqani, pur essendo uno degli attori fondamentali dell’insorgenza contro Kabul, hanno sempre mantenuto un’identità autonoma rispetto a quella del movimento talebano, con il quale hanno stretto negli anni una collaborazione e una stretta sinergia operativa dettata da ragioni di opportunità per massimizzare l’efficacia delle operazioni contro le autorità centrali afghane.
Dall’altro, perché Sirajuddin, originario della provincia orientale di Pakitia e non dalle enclave talebane del sud dell’Afghanistan, non avrebbe avuto una grande presa sugli uomini sul terreno.
Tale estraneità avrebbe potuto ben presto determinare uno scollamento tra la leadership politica e la militanza e favorire così l’emersione di comandanti operativi intermedi, esponendo di fatto il movimento al pericolo di una progressiva atomizzazione della propria struttura in cellule locali sempre più autonome rispetto alle disposizioni di Quetta.
Nonostante l’impossibilità di nominarlo all’apice della gerarchia, la scelta di promuovere Sirajuddin a braccio destro dell’Emiro sottolinea comunque la volontà della Shura di suggellare il rapporto tra il movimento e la potente famiglia Haqqani, che di fatto continua a gestire il traffico di armi e di droga che dall’Afghanistan si dirama poi verso est, in Pakistan, e verso i mercati dell’Asia centrale, e che fornisce, ormai da quindici anni a questa parte, un supporto operativo fondamentale per le operazioni dell’insorgenza in territorio afghano.
Inoltre, in un momento in cui il nuovo Emiro è un ideologo più che un comandante, l’abilità e l’esperienza di Sirajuddin saranno fondamentali per gestire e pianificare le operazioni dell’insorgenza.
Allo stesso modo, anche la nomina di Yaqoob ha un alto valore strategico per la leadership talebana: figlio minore del Mullah Omar, infatti, Yaqoob era stato tra i primi contestatori della nomina dell’allora Emiro Mansour, accusato di aver usurpato alla famiglia dello storico fondatore dell’insorgenza la guida del movimento.
Solo un successivo coinvolgimento da parte di Mansour del giovane Yaqoob in posizioni di pianificazione militare aveva permesso di normalizzare i rapporti tra i due.
Ora, la scelta di nominare Yaqoob secondo vice del nuovo Emiro sembrerebbe rispondere al tentativo della Shura di suggellare il rapporto con la famiglia Omar, sia per assorbire qualsiasi tensione con un gruppo tanto influente all’interno della militanza sia nella speranza che il sentimento evocativo legato alla figura dello storico Mullah possa contribuire a serrare ulteriormente i ranghi introno alla nuova leadership.
In questo contesto, la volontà della leadership talebana di mostrarsi solida e compatta agli occhi della militanza sembra destinata ad avere inevitabili ripercussioni sulla possibilità di riaprire il tavolo di negoziato con Kabul.
La sua formazione profondamente tradizionalista, da un lato, e la necessità di lanciare un segnale di forza a quegli uomini sul terreno che, nell’ultimo anno, hanno di fatto ottenuto importanti successi operativi, dall’altro, rende poco probabile che Akhunzdada possa dimostrarsi più incline rispetto al suo predecessore nel voler trovare un punto di incontro con il governo afghano e dare nuovo impulso al dialogo di pace.
Al contrario, in un momento in cui il nuovo Emiro sembra voler essere sempre più una guida spirituale per il movimento, la sua inclinazione integralista e il suo apprezzamento per il jihad potrebbero a tutti gli effetti incitare la militanza a portare avanti un’opposizione serrata sia contro le autorità afghane sia contro i contingenti internazionali ancora presenti nel Paese, innescando così una spirale di violenza che potrebbe persino inasprire le già precarie condizioni di sicurezza interne.
Francesca Manenti
(Ce.S.I.)
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