Le sabbie mobili della crisi libica/ 5 – Di Marco Di Liddo
Ultima parte – Conclusioni e raccomandazioni: i rischi strategici
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Analizzando l’attuale situazione libica e la strategia sinora seguita dalle Nazioni Unite, appare improbabile che il negoziato, nella forma e nei contenuti proposti da Bernardino Leon, possa risultare un documento in grado di produrre effetti significativi sul processo di pace.
Infatti, alla distanza politica tra i parlamenti di Tripoli e Tobruk si aggiunge la necessità di includere le milizie nel meccanismo negoziale. Senza il supporto delle
rappresentanze claniche e tribali e senza la presenza dei potenti locali, sia il CR e il CGN sia qualsiasi Governo di Unità Nazionale risulterebbero poco rappresentativi e privi di qualsivoglia potere effettivo sul territorio. In questo senso, il tentativo di Leon di convocare rappresentanti delle municipalità per l’ultimo round negoziale è risultato volitivo, ma insufficiente se si considera lo scarno effettivo numero di partecipanti rispetto all’estrema varietà sociale del Paese.
Dunque, nell’elaborazione di qualsiasi piano di pace bisognerebbe tener conto delle richieste dei singoli gruppi espressione delle singole realtà sociali e politiche del Paese. Senza un simile approccio pratico e che tenga conto delle necessità della base, ogni tentativo di aiutare la Libia a stabilizzarsi rischierà di andare incontro al fallimento.
Inoltre, non bisogna mai dimenticare che, fino ad ora, i testi proposti dalle Nazioni Unite erano evidentemente sbilanciati in favore di Tobruk, con i parlamentari di Tripoli relegati ad un ruolo marginale ed esclusi da qualsiasi presenza ministeriale rilevante.
A queste condizioni, è veramente difficile che il CGN accetti alcun tipo di negoziato o accordo.
Dunque, se si vorrà davvero giungere ad un compromesso, si può immaginare che il testo presentato dai negoziatori venga in parte ribilanciato.
Certo, la riapertura a modifiche potrebbe ulteriormente dilatare le tempistiche, ma non sembra che la voglia di Leon di chiudere a tutti i costi il negoziato prima delle scadenza del suo mandato possa portare a migliori risultati.
La strategia di coinvolgere quanti più attori possibile nel negoziato e farli parte del futuro assetto statale libico appare indispensabile non solo per aumentare la legittimità del Governo di unità nazionale, ma anche per disporre di una forza para-militare in grado di fronteggiare le minacce di matrice salafita e il crimine organizzato che gestisce i traffici illeciti.
Inoltre, nell’ottica di una eventuale missione di stabilizzazione, qualsiasi coalizione di forze che sarà chiamata ad operare in Libia non potrà prescindere dall’appoggio di una componente armata locale in grado di garantire il sostegno delle comunità locali e la conoscenza del territorio.
L’urgenza di simili misure ed iniziative è anche dettata dalla possibile espansione del Califfato di Bayda e del modello dello Stato Islamico in Libia.
Infatti, laddove Ansar al-Sharia ha fallito, i movimenti di Derna e Sirte potrebbero riuscire, espandendo il proprio sostegno popolare ben al di fuori dei confini delle rispettive città. In teoria, la proposta di sviluppo attuata dal Califfato ha le caratteristiche per provare a superare il tradizionale frazionismo sociale libico, dando ampio risalto alle «autonomie locali» e garantendo una importante somministrazione di servizi essenziali.
Come se non bastasse, la capacità di propaganda ed inclusione dello Stato Islamico si coniuga perfettamente con le esigenze della società libica, caratterizzata da una estrema varietà di agende politiche che potrebbero essere convogliate e armonizzate sotto l’ombrello del jihadismo.
Una volta cristallizzato e sedimentato il proprio potere in Libia, nulla toglie che il Califfato possa estendere i propri tentacoli nella regione del Maghreb sfruttando l’effetto combinato di una propaganda tagliente ed efficace, utile per i contesti urbani e le popolazioni rurali di Tunisia ed Algeria, e della cooptazione delle rivendicazioni delle tribù del deserto, con in testa i Tuareg.
In breve, quanto accaduto ad Anbar ed a cavallo tra Siria ed Iraq potrebbe ripetersi tra le dune del Sahara e del Sahel, replicando, su larga scala, quanto già provato da al-Qaeda nel Maghreb Islamico in Mali.
Per l’Italia, la stabilizzazione libica è una priorità irrinunciabile. Infatti, l’attuale situazione presenta notevoli punti di criticità strategica per il nostro Paese.
Innanzitutto, l’assenza di una struttura statale efficiente permette la proliferazione dei traffici illegali diretti verso il nostro Paese.
Una Libia fuori controllo rappresenta un corridoio preferenziale per il flusso di stupefacenti e di migranti. In un momento storico come quello attuale, in cui l’Unione Europea ha dimostrato di non avere una linea unitaria in tema di immigrazione ed accoglienza, l’aumento del numero di profughi e migranti economici verso le coste mediterranee settentrionali rischia di dover essere gestito esclusivamente dal nostro governo, con costi sociali e di stabilità politica non indifferenti.
In secondo luogo, la pacificazione libica si rende necessaria per la tutela degli interessi energetici italiani. Infatti, la labile protezione degli impianti estrattivi dell’ENI potrebbe essere messa in pericolo nel caso in cui le milizie decidessero, come avvenuto in passato in Cirenaica, di impadronirsi dei pozzi e usufruire degli introiti del mercato nero. In questo senso, il pericolo principale è costituito proprio dal Califfato di Bayda che, imitando quanto successo in Siria, potrebbe puntare al controllo dei pozzi petroliferi per alimentare la propria macchina para-statale, il sistema di welfare e, di conseguenza, il proprio sostegno popolare.
Dunque, quando le condizioni politiche e di sicurezza lo permetteranno, sarebbe auspicabile immaginare un programma di addestramento per corpi militari o para-militari libici deputati al controllo delle infrastrutture petrolifere.
Infine, non bisogna mai dimenticare che in Libia e in tutto il Maghreb vivono e lavorano cittadini italiani. Il protrarsi dell’anarchia politica e la proliferazione del jihadismo rappresentano una minaccia concreta per la vita dei nostri compatrioti.
Se in Libia il Califfato continuerà nel suo processo di crescita, è lecito aspettarsi attacchi contro i simboli, gli interessi e gli uomini occidentali, compresi quelli italiani.
In base a queste considerazioni, appare evidente come il nostro Paese dovrebbe proseguire, con ancor maggiore intensità, una duplice azione diplomatica sia in direzione delle realtà libiche che in direzione delle principali organizzazioni internazionali.
Per quanto riguarda il primo aspetto, sembrerebbe opportuno ricercare un dialogo con le più autorevoli personalità libiche, indipendentemente dalla propria affiliazione politica e dall’appartenenza a uno dei due parlamenti in lotta.
L’obiettivo finale di questa esplorazione negoziale potrebbe essere la convocazione di una conferenza nazionale libica che includa rappresentanti di Tripoli, di Tobruk e delle diverse organizzazioni claniche, tribali e miliziane.
Soltanto così si può pensare di aprire un dialogo con le forze vive della società e isolare tutte quelle correnti massimaliste.
Nell’eventuale proposizione di un piano di pace e di una bozza di progetto per il futuro assetto istituzionale del Paese non dovrebbe mancare il caposaldo del federalismo e delle autonomie.
Infatti, nessuna autorità libica reale ed effettiva accetterà mai un sistema di governo centralizzato. In questo senso, il futuro di Tripoli non può che essere federale e con ampie autonomie regionali.
In parallelo con il dialogo bilaterale italo-libico, ulteriori misure potrebbero essere adottate sul piano internazionale: tra queste si potrebbe prevedere, in primo, l’adozione di un efficace piano umanitario, in grado di alleviare i bisogni della popolazione e sottrarla alle sedizioni dei movimenti jihadisti.
Andrebbe inoltre valutata l’eventualità di un utilizzo della forza armata: un’opzione che potrebbe vedere l’Italia quale Paese leader, in virtù della grande capacità del nostro comparto di Difesa ed a sottolineare il tradizionale impegno italiano nel mantenimento dell’ordine e della sicurezza globali.
Marco Di Liddo
(Ce.S.I.)
Fine
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