La storia di Hassan e altri otto pirati somali. – Di A. De Felice
Ma chi sono i veri pirati della Somalia? Ce lo spiega il nostro esperto in problematiche del Medio Oriente
Somalia, Regione del Puntland;
In un assolato e afoso mattino ai primi di luglio, Hassan, 23 anni
e altri otto uomini, tra cui un ragazzo di 19 anni, 5 di 20 e uno
di 21, salgono sul loro skiff, la veloce e maneggevole
barca in legno di piccole dimensioni usata dai pirati somali.
Ciascuno è armato con un fucile Kalashnikov AK 47, una granata e
molte speranze.
Si sono spinti lontano dal loro villaggio vicino a Bossasso, il
grande porto della regione semi-autonoma del Puntland, fin
all'interno delle dolci acque del Golfo di Aden in cerca di
fortuna.
La loro rotta è West - 250 miglia lungo le coste somale prima di
virare verso Nord, verso lo Yemen, dove le strette vie di
navigazione sono tutte occupate dalle grosse navi da e per il Mar
Rosso.
Il loro obiettivo, condiviso con un uomo d'affari di origine somala
residente all'estero che ha finanziato le loro armi e la barca, è
quello di attaccare le navi commerciali e di trattenerle con il
preciso intento di ottenere un ricco riscatto.
Ha fatto il pescatore per otto anni Hassan e lo faceva anche bene,
poi ha visto i suoi amici diventare ricchi con la pirateria e
allora ha pensato di fare un tentativo anche lui.
Né Hassan, un pescatore, né alcun altro dei suoi compagni - come la
maggior parte degli uomini in una nazione di pastori - hanno
esperienza marinara né hanno mai lavorato prima come pirati. E
questa è la loro prima missione.
La loro motivazione è semplice: il denaro.
Il loro metodo è elementare: attaccare la prima nave che
vedono.
Sono migliaia gli Hassan in Somalia.
Legioni di giovani senza futuro che vivono in un paese devastato
dalla guerra civile e che rappresentano la forza muscolare della
pirateria marittima.
Non sicuramente il cervello di questo grande business - che ha
fatturato tra il 2009 e il 2010 oltre 400 milioni di dollari in
riscatti - e che dispone di risorse tecnologicamente avanzate e
personale altamente specializzato.
La pirateria a largo delle coste somale è in forte espansione.
Nel solo primo trimestre 2011 gli assalti a navi sono stati 142
contro i 445 di tutto il 2010.
Sono 18 le navi prese in ostaggio e 340 i marinai catturati e
tenuti in ostaggio.
I leader mondiali hanno dovuto riconoscere, con loro grande
disappunto, che il problema richiede più di un semplice intervento
con un paio di navi da guerra e lanci di aiuti alimentari
a una popolazione affamata - ma anche ben armata - e disperata.
Catturare gli uomini come Hassan per sconfiggere la pirateria è un
po' come cercare di arrestare uno spacciatore per vincere la guerra
alla droga.
Hassan è il gradino più basso di una rete criminale che include:
responsabili portuali corrotti, politici e investitori provenienti
da Europa, Asia e America.
Il grosso dei soldi dei riscatti - 5.5 milioni di dollari è stato
il valore medio dei riscatti pagati nel 2010 - non raggiungono mai
la gente come Hassan. Al massimo gli uomini armati riescono a
guadagnare una cifra tra i 10.000 e i 20.000 dollari a testa per
operazione.
Ma in un paese devastato da due decenni di guerra e dalla fame,
dove il reddito medio è di 500 dollari all'anno e 60.000 persone
sono a rischio immediato di vita per fame, 20.000 dollari per un
lavoretto poco pericoloso, sono un rischio che vale la
pena di prendere.
Hassan è stato contattato da un investitore ed è stato
ingaggiato con il preciso compito di attaccare navi straniere in
cambio di un riscatto.
Per lo start-up dell'operazione c'è bisogno di parecchi soldi, tra
i 150.000 e i 250.000 dollari, ma se si desidera fornire capitali
ad una operazione già esistente, allora si possono dare anche solo
50 mila dollari e avere comunque una partecipazione agli utili.
Come la maggior parte delle comunità della diaspora, i somali
espatriati inviano denaro ai parenti e alle famiglie rimaste in
patria per aiutarle a sopravvivere.
I metodi usati per il trasferimento del denaro sono i costosi, ma
legali, come il Western Union oppure i sistemi tradizionali, ma
poco chiari, chiamati «hawala».
Attraverso l'hawala un espatriato può consegnare del denaro ad un
uomo d'affari a Manchester sapendo che esso potrà essere ricevuto a
Mogadishu entro poche ore.
I rivenditori di hawala fanno profitti come la Western
Union prendendo una percentuale sulla transazione. Ma l'hawala è
senza libri contabili ed è irrintracciabile.
L'investitore di Hassan è dunque, quasi sicuramente, un somalo
espatriato.
Un piccolo businessman che vive tra il Medio Oriente e l'Australia
con un piccolo portafoglio tra i 50.000 e i 250.000 dollari da
investire.
Alcuni investitori, quelli più grossi, dotano gli equipaggi dei
pirati di telefoni satellitari per ottenere informazioni in tempo
reale sulla posizione e sulla composizione dell'equipaggio
dell'obiettivo, affittano «navi madre» per portarli a largo e
concedere loro maggiore raggio d'azione e copertura prima di
sferrare l'attacco ad una nave con i più piccoli skiff, vantano
contatti e collegamenti con il mondo del brokeraggio navale e
assicurativo tali da assicurare loro informazioni privilegiate.
Arrivano fino a imbarcare, sulle navi madre che affittano, anche i
loro cuochi così da poter garantire ai pirati cibo fresco e ben
cucinato nonostante i lunghi periodi di permanenza in mare che
possono raggiungere anche alcune settimane.
In generale il 50% circa del riscatto pagato va agli investitori,
il 20% va ai funzionari governativi e ai responsabili portuali o
anche a gruppi islamisti che custodiscono la nave mentre le
trattative sono in corso.
Il restante 30% va ai pirati stessi.
Spesso la divisione del riscatto avviene direttamente sul ponte
della nave sequestrata, si va dai mille dollari a testa per i
giovani (spesso adolescenti) che fanno la guardia di notte, ai
10-20 mila per pirata imbarcato.
È questa improvvisa ricchezza che rende irresistibile il richiamo
per i giovani.
Improvvisamente in grado di costruire case e di comperare
automobili grosse e veloci, un pirata può facilmente reclutare da
solo, nel proprio villaggio, nonostante la disapprovazione da parte
degli anziani, gli uomini più idonei.
Ma, se in poco tempo i soldi dei pirati volano via tra ragazze e
khat, quelli degli investitori vengono invece reinvestiti - anche
grazie ad esperti ragionieri contabili - in immobili, riciclando
così il denaro in paesi terzi stabili come il Kenya, gli Emirati
Arabi Uniti o il Sudafrica.
Solo ciò può spiegare l'improvviso e copioso afflusso di denaro
nell'enclave dei rifugiati somali di Eastleigh a Nairobi (Kenya)
dove, mentre la maggior parte delle strade restano sterrate, sono
spuntate all'improvviso scintillanti strutture di acciaio e vetro
che offrono materiali elettronici d'importazione e grandi empori
d'abbigliamento occidentale a prezzi stracciati.
La maggior parte dei somali è convinta che i capi della pirateria
siano i leader del passato e del presente della regione del
Puntland.
Non si spiegherebbe diversamente il rapido degrado delle condizioni
di sicurezza di quest'area che, a fronte di una crescente
corruzione all'interno del Governo, ha favorito il fiorire di
imprese criminali impegnate nel contrabbando di armi, nel traffico
di esseri umani, nella contraffazione e nella pirateria.
Quando, poi, i pirati devono portare una nave in porto per iniziare
una lunga procedura di negoziazione per ottenere un riscatto, in
genere trovano asilo nei porti del Puntland di Ayl e Bossasso.
È inoltre alle milizie del ex Governo Federale di Transizione
somalo del presidente Abdullah Yusuf che si ascrive il primo atto
di pirateria marittima in quell'area ai danni di un peschereccio
taiwanese nel 2007 e fu proprio sotto la presidenza di Abdullah
Yusuf che nel Puntland decollarono le attività criminali.
Nel frattempo Hassan e i suoi compagni sono stati intercettati e
arrestati da una delle tre motovedette della guardia costiera del
Repubblica Indipendente del Somaliland.
È bastata la soffiata degli abitanti di un villaggio a cui si erano
rivolti i pirati per acquistare cibo e ottenere informazioni sulla
via migliore per raggiungere lo Yemen a tradirli.
Le autorità governative sono state avvisate che la barca era piena
di pirati e la guardia costiera si è preparata alla battaglia.
Ma non è stato necessario sparare un colpo.
I pirati non hanno neanche tentato di reagire (le loro armi e le
loro granate sono rimaste nascoste sotto un telo) e tutto si è
concluso velocemente, in pochi minuti e con essi si sono conclusi i
sogni di ricchezza di Hassan e dei suoi compagni.
Il Somaliland infatti, consapevole che la maggior parte dei pirati
sono giovani disperati e affamati e altresì preoccupato di un
potenziale contagio culturale con la conseguente diffusione di idee
sbagliate tra i propri giovani e i giovani del Puntland, ha infatti
ufficialmente dichiarato la sua ferma volontà nel voler combattere
la piaga della pirateria marittima ed il terrorismo internazionale
e, nonostante i limitati mezzi tecnici ed economici, si è messo a
farlo davvero.
Incarcerati nel centro di detenzione di Berbera ad Hassan,
Abdullah, Alì, Ismail e compagni, non è rimasto che ammettere il
loro intento criminale di attaccare le navi e implorare la
misericordia del governo del Somaliland.
Misericordia che non ha tardato ad arrivare.
Già, perché in Somaliland, Paese desideroso di essere pienamente
riconosciuto come una nazione-stato filo-occidentale, sostenitrice
del libero mercato, la giustizia arriva rapidamente e, 10 giorni
dopo il suo arresto, Hassan e la sua ciurma sono stati condannati a
20 anni.
Chi sono dunque i veri pirati della Somalia?
I giovani ragazzi come Hassan che sfrecciano armati sulle barche o
sono gli uomini d'affari dietro di loro, quelli con i soldi per
comperare le barche, i motori, le armi, le munizioni e i
dispositivi GPS ed affittare le navi madre e che hanno investito i
loro soldi in Kenya a Dubai e Mumbai?
Antonio De Felice
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