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Dietro (o meglio davanti) alle quinte del Parlamento Europeo

La vera partita comincerà con le risultanze delle elezioni francesi volute da Macron

La sorprendente disinvoltura con cui oggi coloro che in un passato anche recente hanno celebrato un «vincolo esterno» come necessario per quel cosiddetto percorso riformista che appare sempre più finalizzato a ridurre il peso statuale in quel sistema di welfare costruito a colpi di riforme nel decennio dei governi Fanfani e fatto anche di quelle garanzie per i lavoratori introdotte all’inizio degli anni ’70 con l’apporto determinante di Carlo Donat Cattin, ci spiega oggi convintamente di una repentina e progressiva marginalizzazione del nostro Paese a livello internazionale.
E nel farlo la collegano artatamente alla vittoria del Centro Destra del settembre 2022 E questo grida vendetta al cielo.
 
Va premesso che, nel febbraio 2011, si registrava la netta opposizione dell’allora Presidente Giorgio Napolitano, che presiedeva di diritto anche il Consiglio Supremo di Difesa, a ottemperare il «Trattato di Bengasi» del 2008, peraltro già ratificato il 6 febbraio 2009 dal Parlamento Italiano.
Nel trattato si precisavano esplicitamente:
a) L’impegno per Italia e Libia a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite»;
b) L’impegno ad astenersi «da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato», offrendo invece ad alcuni Paesi alleati nella NATO anche le basi aeree necessarie per attaccare pretestuosamente e poi dividere la Libia in favore degli interessi francesi e russi in quell’area, aveva ampiamente polverizzato la credibilità internazionale del Paese e dell’allora Primo Ministro Silvio Berlusconi e che già dopo la firma del Trattato «Belt and Road» da parte del famigerato «GiuseppI» Conte nel 2019, uscito di scena Donald Trump, a Roma NON ci fu più l’ambasciatore di Washington fino alla nomina di Jack Markell, nel luglio 2023.
 
Con il Governo Meloni, ciò che sorprende di più è «la pretesa che vi sia un’autorevolezza da difendere in Europa».
Lì dove gente come Sandro Gozi ed Enrico Letta, dalla Parigi che li sfama, spiegano agli italiani come essere europeisti.
Le recenti votazioni, che così poco hanno appassionato i cittadini dei 27 Stati dell’Unione (Unione che ad oggi che è un aggregato di singoli interessi costruito su miriade di accordi bilaterali, privo di una propria Costituzione Fondativa, con ben nove valute in circolazione, di cui una è presuntuosamente chiamata Moneta Unica ed è all’uopo gestita da un Consorzio di Banche che non ha saputo darsi lo Statuto di Banca), hanno espresso un Parlamento che, in virtù di quel difetto costituente non ha altro ruolo nella Governance complessiva di questa che resta un’Unione a metà se non il proporre oggetti su cui legiferare alla Commissione Europea e ratificare o meno, con la propria legittimazione, le indicazioni che riceve da una Commissione Europea di volta in volta imbeccata dal Consiglio d’Europa o dallo stesso Parlamento.
 
Succede quindi e succederà anche questa volta, che le ambizioni politiche, ovvero le candidature che vengono presentate nella fase di costituzione della Commissione Europea, con un consenso che non è necessariamente unanime, siano figlie dei Governi in carica e che, salvo per la Polonia cui la Commissione presieduta da Romano Prodi concesse una rappresentatività parlamentare non proporzionale, siano poi i rappresentanti al Parlamento Europeo che sulla proporzionalità ha costruito la propria legittimazione ed eletto con criteri proporzionali puri ad approvarle o stopparle. Con logiche che potranno essere interne oppure di interesse più generale.
Per fare un esempio concreto: se la volta scorsa Weber dei Popolari si trovò a dover rinunciare alle proprie ambizioni per sostenere una Ursula Gertrud Albrecht, coniugata von der Leyen su cui la Merkel, forte dell’esperienza fatta nell’averla avuta precedentemente in un proprio gabinetto come ministro della Difesa, si astenne ed accettare con quella un vice presidente socialista, questa volta potrebbe fare diversamente.

Ora si potrebbe scommettere su un minor peso dei socialisti in Commissione e quindi di «bruciare» nel voto assembleare quella candidatura. per candidarsi poi come un punto di mediazione più attento alle destre. Puntando così ad incrinare in Europa quell’asse con i socialisti che in casa sta divenendo zavorra.
E dispiacendo quella Polonia che è candidata a sostituire il peso della Germania nella NATO.
La Meloni lo sa e tra un commissario di peso e una specie di Gentiloni appoggerebbe uno Weber piuttosto che una Ursula von der Leyen.
E domenica da Parigi al PSE arriverà un segnale di più.
Con buona pace di chi non ha capito che la partita comincia ora.

Cesare Scotoni

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