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Berlino, 9 novembre 1989 – Di Luciana Grillo

Organizzammo la gita scolastica sei mesi prima senza pensare che avremmo assistito in diretta a una grande pagina di storia d'Europa: la caduta del Muro di Berlino

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La Porta di Brandeburgo.

Nel 1966, io e due compagni di scuola decidemmo di andare a Berlino a vedere lo sconcio del Muro. Non ci potevamo credere e volevamo toccare con mano l’idiozia di chi aveva diviso la capitale tedesca mentre stava nascendo l’Unione Europea.  
Passammo il Checkpoint Charlie e riuscimmo a vedere la differenza tra la libertà e la dittatura.
Quell’avventura - decisamente d’altri tempi - l’abbiamo scritta e pubblicata su questo stesso giornale, disponibile a questo link.

Ventidue anni dopo fu la nostra stimata collaboratrice Luciana Grillo ad andare a vedere il Muro con le scolaresche del liceo.
Non lo sapevano, ma sarebbero andati ad assistere alla caduta del Muro in diretta.

Nell’immagine di copertina vediamo la foto scattata alla professoressa Grillo e colleghi, qui di seguito pubblichiamo quella scattata a noi 22 anni prima. Non era cambiato molto…

Tra pochi giorni, il 9 novembre, scade il trentesimo anniversario della caduta del Muro.
I Muri, lo sappiamo, sorgeranno ancora perché l’idiozia umana è dura a morire.

Però noi che abbiamo visto sorgere e crollare quello indistruttibile di Berlino, possiamo infondere fiducia ai nostri giovani: alla lunga il buonsenso prevale e prevarrà sempre.

Guido de Mozzi.

Alla fine dell’anno scolastico 1988/89 decisi, con gli studenti che l’anno successivo avrebbero frequentato l’ultimo anno del Liceo Scientifico Leonardo da Vinci, con colleghi e alunni di altre sezioni, di anticipare il viaggio di istruzione della V a novembre, in modo da non doverci impegnare nell’organizzazione e nella realizzazione della gita scolastica nella primavera del ’90, a pochi mesi dall’esame di Maturità.
Scegliemmo di andare a Berlino, città divisa dal Muro, posta sullo scomodo confine tra Est e Ovest, ma sempre affascinante, forse proprio per la sua diversità.
Mai avremmo potuto immaginare che ci saremmo trovati in mezzo a quel capovolgimento della Storia che è stata la cosiddetta «caduta del Muro».
 
Durante il lungo viaggio in pullman, nulla era cambiato rispetto al passato: l’interminabile cupo corridoio che per chilometri e chilometri ci isolava dal nostro occidente scorreva sotto le ruote. I gendarmi salirono a bordo al confine, guardarono con attenzione i documenti e le facce di ciascuno di noi, poi ci lasciarono andare.
Arrivammo a Berlino di sera tardi e subito ci recammo all’ostello di Charlottenburg [gemellata con Trento – NdR] per pernottare.
Il giorno dopo, sotto un cielo grigio che non prometteva nulla di buono, cominciò la nostra avventura: la separazione sembrava netta fra le due parti della città, lo spazio «di nessuno» era lì, desolato, oltre il Muro, oltre la mastodontica Torre di Brandeburgo, mentre poliziotti armati vigilavano.
 
Ad uno sguardo più attento, però, non sfuggiva un certo movimento e qualche Trabant [auto prodotta in DDR – NdR] che timidamente trotterellava sulle strade dell’ovest.
La caduta del muro di Berlino in realtà era nell'aria già da tempo: in Polonia il 4 giugno 1989 si erano tenute elezioni «semilibere», aveva trionfato Solidarnosc ed era stato nominato capo del governo Mazowiecki; in Ungheria il 16 giugno 1989 erano stati celebrati i funerali postumi di Imre Nagy, impiccato nel 1958; il 19 agosto 1989 si tenne il primo picnic del Movimento Paneuropeo tra Austria e Ungheria: circa 500 "turisti" della DDR ne approfittarono per varcare il confine, la cortina di ferro.
Fu l'inizio dell'esodo che portò l'Ungheria ad aprire i confini l'11 settembre.
 

 
Secondo Gorbaciov, il crollo del muro fu il culmine di un processo che andava avanti da molto tempo: libere elezioni democratiche in URSS, inizio del processo di disarmo tra USA e URSS, presentazione di 10 punti per il riavvicinamento fra le due Germanie da parte del Cancelliere Kohl, continue manifestazioni spontanee di gente che gli gridava «Gorby, resta con noi! Gorby, libertà!».
Sempre Gorbaciov ricorda che il premier polacco, a Berlino con lui per i festeggiamenti del quarantennale della RDT il 6 ottobre 1989, udendo la folla gli chiese «Mikhail Sergheevic, capisce il tedesco?»
Gorbaciov gli rispose di sì e lui: «Allora capirà che è la fine!»
 
Noi ci avvicinammo al Muro e vedemmo tante persone che armate di martelli, punteruoli o picconi, tentavano di sgretolarlo.
Anche noi comprammo un piccone e ci mettemmo all’opera!
Intanto, da varchi improvvisati i tedeschi dell’est passavano guardinghi.
Intorno, un’atmosfera sospesa, incredula.
 
Andammo al Checkpoint Charlie e nulla però sembrò cambiato: perquisizioni, file ordinate e silenziose, cambi obbligatori dei marchi.
Alexander Platz era una squallida spianata, in fondo un grande magazzino, al centro una casetta di legno dove si potevano acquistare i francobolli e le cartoline. Vecchiette intabarrate vendevano trecce di aglio e cipolle.
Il grande magazzino era deserto, poca la merce sugli scaffali. Noi avevamo i marchi dell’est da spendere, ma la scelta era davvero modesta.
Comprai biglietti natalizi semplici, non ricchi e carichi di brillantini colorati come i nostri, e quaderni dalla copertina ruvida, nera, con la costa rossa, come si usavano da noi forse nell’immediato secondo dopoguerra.
 

 
Al ritorno, visitammo il Museo del Checkpoint e scoprimmo in quanti modi e correndo quali rischi i berlinesi dell’est avessero lasciato o tentato di lasciare il loro Paese.
Poi, all’improvviso, forse per un fraintendimento, o per un ordine di Gorbaciov, l’isolamento si era come scheggiato, si era aperta una breccia… e la gente che si era vista chiusa in una gabbia, separata da persone care, isolata dal mondo, aveva cominciato timidamente a passare all’ovest.
Deve essere stato emozionante per loro l’impatto con una società che avevano solo potuto immaginare da lontano, con una fetta della loro città che splendeva di mille luci… che loro guardavano da lontano e sognavano di raggiungere.
 
Noi li vedemmo, in file ordinate, un po’ impacciati, tenendosi per mano, avanzavano lungo il Ku’damm e guardavano le vetrine illuminate, gli abiti luccicanti, le riviste patinate, le auto di lusso, con occhi incantati, come i bambini a Gardaland o a Disneyworld.
I più commossi erano gli anziani che tornavano in quei luoghi… guidavano la loro famiglia, i figli e i nipotini formando una lunga catena che soprattutto ai semafori si compattava, forse per non dare nell’occhio.
I capifamiglia entravano nelle banche a ritirare un omaggio, un segno di benvenuto in denaro, da spendere per comprare qualche cosa desiderata e sognata.
 
Ci trattenemmo alcuni giorni; nevicò abbondantemente, visitammo una scuola berlinese (ovviamente dell’ovest), parlammo con i nostri colleghi e li sentimmo preoccupati.
Sapevamo che vivendo a Berlino godevano di alcuni privilegi rispetto agli altri tedeschi, erano esentati dal servizio militare, guadagnavano di più, avevano ferie più lunghe… Cosa sarebbe successo se l’invasione pacifica fosse continuata fino ad abbattere ogni forma di confine?
Nessuno poteva rispondere, noi picconammo ancora e tornammo a Trento con una ricca quantità di cocci, mentre il consumismo occidentale trionfava esponendo in vendita souvenir e T shirt con la stampa del Muro e della breccia.
 
Anche la Rai mandò i suoi operatori in classe per chiederci le nostre impressioni e oggi, 30 anni dopo, ancora ricordiamo con emozione quell’atmosfera inattesa che ci fece sentire al centro del mondo e nel cuore della grande Storia.

Luciana Grillo - [email protected]

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