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Paul Krugman: l'economista più letto d'America

A Krugman il compito di aprire il Festival dell'Economia «Attenti, il mercato può esistere anche senza democrazia»

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«Dopo i segnali incoraggianti del 1989, il capitalismo autoritario si é mostrato solido in Cina e Russia. E gli stessi Stati Uniti hanno rischiato il tracollo della libertà. Il futuro non è nel PIL, ma nel tipo di persone che abitano ed interpretano il mondo»

Due volte alla settimana le sue opinioni e le sue teorie sono lette con attenzione dagli uomini più potenti del mondo. Succede quando gli articoli di Paul Krugman vengono pubblicati dal «New York Times».
E' toccato giustamente a lui, a quest'omone con la barba, aprire oggi la terza edizione del Festival dell'economia di Trento. E' stato chiamato a rispondere di mercato e di ideologie, l'opinionista ed editorialista americano che insegna economia e relazioni internazionali all'Università di Princeton e alla London School of Economics, dopo aver trasmesso il suo sapere anche all'Università di Yale, al MIT e all'Università di Standford e la cui attività di ricerca è concentrata sul commercio internazionale, sulla finanza, sulle currency crisies.

E' stato chiamato a rispondere, da Tito Boeri, ad una domanda tutt'altro che facile: mentre le economie pianificate non possono sopravvivere senza un'ideologia, le economie di mercato sembrerebbero non richiedere un sostegno ideologico. Questo può voler dire - e il riferimento primo e chiaro è stato alla Cina, per poi comprendere anche la Russia - che i mercati senza democrazia possono durare in eterno? Domanda epocale, verrebbe da dire. Stemperata da un gesto iniziale di Krugman.
«Faccio un grande gesto di libertà e mi tolgo la giacca, visto il caldo che fa in sala», ha detto, strappando sorrisi e applausi. Per altro non era solo la sala Depero, stracolma, ad ascoltarlo. Anche i posti nelle due sale contigue con collegamento video erano tutti «esauriti». Miglior esordio il Festival dell'economia non poteva avere, il commento di Tito Boeri.
E proprio Boeri ha presentato Krugman prima di tutto come un convinto democratico. Lo testimonia il libro appena edito da Laterza, «La coscienza di un liberal», cui spesso ha fatto riferimento Krugman nella sua «lezione», dal titolo eloquente «Il momento democratico è passato?».
Andiamo subito alla soluzione del «giallo». Krugman ha concluso così. «Non è scritto da nessuna parte che il progresso economico, come pure potrebbe far pensare il fatto che tutti i paesi più ricchi del mondo sono sistemi democratici, porti necessariamente alla democrazia. E dunque il futuro non sta tanto nel PIL pro capite del mondo, quanto nel tipo di persone che vivono in questo mondo.»

Già: non sono mancati gli accenti pessimistici nell'intervento di Krugman. Che pure ha stupito non poco, in questi anni, quando si è detto convinto - forte di una passione civile apparsa anche oggi evidente - non solo della partecipazione democratica come valore in sé, ma aggiungendo anche che non è stata tanto l'economia, in questi anni - e specie negli Stati Uniti - a condizionare la politica, quanto piuttosto il contrario.
Eppure, «cosa sappiamo oggi sulla possibilità di sviluppo della democrazia in tutto il mondo?» si è chiesto e ha chiesto Krugman.
«Certo - ha detto - ripenso al 1989, a quell'anno dei miracoli, al crollo delle ideologie ma anche al sogno di Tienanmen. Ripenso a quelli che sembravano segni di democrazia in crescita, tanto che Fukuyama poté parlare di fine della storia. Insomma, sembrava ineluttabile che il mercato spingesse verso società democratiche, ovunque.»
E invece, non sono soltanto Paesi che potrebbero essere definiti marginali quali Cuba e Corea del Nord - ha aggiunto Krugman - a dirci di una diversa direzione.
«Persiste soprattutto un capitalismo autoritario che trova in Cina e Russia i suoi esempi più clamorosi e dalle dimensioni che tutti conosciamo. Certo, in America Latina cogliamo segnali incoraggianti di democrazia, ma nel complesso la nostra certezza, rispetto agli anni immediatamente seguenti al 1989, è assai meno solida.»

Krugman ha poi messo in fila una serie di dubbi, apparsi a tratti come dati di fatto, sui quali meditare.
«Ci può bastare il fatto che tutti i Paesi ricchi siano oggi liberi? No, perché la Cina sta crescendo, non ha democrazia e paradossalmente, pur avendo creato la sua vertiginosa crescita tutta dopo il 1989, mantiene e continuerà a mantenere grandi livelli di povertà. La sua forza è data dalla popolazione, ma quando - nel 2022 - la Cina sarà la prima economia del mondo, avrà raggiunto il livello attuale della Russia. Andiamo verso un mondo dove alcune grandi potenze potranno non essere democratiche. Dunque, non è sempre vero che ricchezza vuole dire democrazia e la Cina lo sta a dimostrare. Ma c'è dell'altro. E' vero che le democrazie hanno maggior successo economico? Non è detto. Purtroppo non è sempre così. In Brasile, paese oggi fortunatamente democratico, il successo economico è stato tale con il regime militare. Certo, è vero che i peggiori disastri economici vengono da Paesi con regimi e dittature. Ma i dati non dicono che democrazia e mercato vadano di pari passo.»
Insomma, spunti e dubbi nell'analisi di Krugman che ha anche ricordato il caso del Messico: approdato ad una vera democrazia quando il ruolo magnetico degli USA, in chiave economica, è apparso evidente e riconosciuto dagli stessi trattati NAFTA.

Infine, Krugman ha guardato a casa sua, agli Stati Uniti. E qui l'anima liberal, la passione civile, sono apparse nitide.
«C'è infatti un'altra domanda che dobbiamo farci - ha detto - ed è questa: quanto è sicura la natura democratica dei Paesi avanzati e ricchi? Tra il 2002 e il 2003 il mio Paese ha rischiato il tracollo della democrazia. Non finirò mai di dire cosa abbia rappresentato, in negativo, la figura di Bush e di un movimento politico ben preciso connotato solo da volontà di potere. Pressioni e lobby non si contano. Ci sono stati e ancora ci sono tanti segnali a dirci di una democrazia fragile. A partire dal fatto che le grandi compagnie telefoniche continuino a chiedere amnistie future per comportamenti generati da precise richieste della Casa Bianca. Io stesso sarei ben stupito del fatto di non essere stato intercettato e spiato in questi anni.»

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