Sul Cammino di San Benedetto/ 4 – Di Elena Casagrande
A Montecassino si arriva percorrendo un cammino punteggiato da splendide Abbazie: la Certosa di Trisulti e le Abbazie di Casamari e San Domenico di Sora
La Certosa di Trisulti vista dal cammino.
(Link alla puntata precedente)
Collepardo ha degli angoli davvero suggestivi. La Chiesa del Salvatore col busto argenteo del Cristo, l’orologio civico «a sei ore», i 3 orologi «senza ore» e i suoi edifici antichi.
Tra tutti spicca il palazzo del Monsignore, collegato, attraverso una torre e un giardino pensile, alla Casa di Ivi, dove pernottiamo.
Un tempo era la palazzina di servizio della residenza estiva del Cardinale Augusto Theodoli.
Ivana, che ne ha fatto un B&B col marito architetto, ci ha prenotato la cena al bar-tavola calda del paese.
In piazza ci sono tutti, con indosso le magliette verdi del Cammino di San Benedetto. Il menù, servito all’aperto, propone paccheri al ragù e scamorza fusa con prosciutto.
Al ritorno «a casa», parliamo un po’ al chiaro di luna e raccogliamo i panni stesi nel giardino terrazzato.
Dormiamo nella «stanza del Cardinale», elegante, piena di mobili antichi e con le pareti tinteggiate di rosso carminio.
Davanti al Portale dei Tolomei di Collepardo.
L’indomani facciamo colazione sul presto
«Gli altri non ci sono?», – domando.
«Stanno ancora dormendo: hanno l’autobus più tardi» – mi risponde l’architetto.
È innamorato di questa casa, comperata dal padre negli anni ’90. Ci parla dei dintorni e della Certosa di Trisulti.
Proprio in questi giorni la sua gestione è passata da un’associazione americana al Ministero dei Beni culturali e i paesani sperano che, così, la certosa possa essere visitata più facilmente.
Ci arriviamo dopo una salita di circa 6 km, ma - purtroppo - è chiusa. Niente visita alla sua antica farmacia. Ci vorrà del tempo per riorganizzare il complesso.
Proseguiamo fino a Civita, dove ci imbattiamo in una signora che sta pascolando le capre. Ha sandali e piedi distrutti e mostra rughe precoci: la vita non deve esser stata tenera con lei. Incontriamo anche un cercatore di tartufi, che ci mostra il suo bottino.
Vorrebbe regalarcene uno, ma, per problemi logistici, dobbiamo rifiutare.
«Lo mangi alla nostra salute!» – gli dico, ringraziandolo.
Il cercatore di tartufi con il suo tesoro.
Nel Frusinate anche i toponimi ricordano i personaggi famosi dell’antica Roma
A Santa Francesca c’è un bar gelateria aperto: una manna, dato che a Santa Maria Amaseno era tutto chiuso. Dopo una bibita fresca, seguendo dei cartelli del Cammino di San Benedetto, accoppiati col giglio del Cammino di Sant’Antonio, sbagliamo sentiero. Per fortuna, però, tornando indietro, riusciamo a riprendere la via per l’Abbazia di Casamari.
Si chiama così perché qui risiedette il famoso console Caio Mario, nato ad Arpino. Quando la vedo mi emoziono perché mi ricordo di quando la citai, nella mia tesi di laurea.
È possente ed accogliente allo stesso tempo. Il suo chiostro sembra quello de La Santa Espina, sui monti Torozos in Spagna, mentre la navata centrale della Chiesa è simile a quelle del gotico cistercense francese e catalano.
Ce la mostra un monaco certosino. È anziano, ma si trasforma in un ragazzino entusiasta mentre ci parla di San Bernardo di Chiaravalle.
L’ingresso alla Chiesa dell’Abbazia di Casamari.
Compero sapone e shampo all’erboristeria dell’Abbazia e poi assistiamo ai Vespri. Il tempo sembra essersi fermato. Alloggiamo dalle Suore della Carità. Ci siamo solo noi.
«Dove saranno gli altri» – mi chiedo?
Il ristorante «Da Renato», sotto la strada, ha le luci spente!
Anche se non c’è nessuno è aperto: bene, la cena è salva.
«Che ve porto?» – ci domanda il proprietario.
«Ci dica lei», – sussurro.
«Tagliolini e bistecca.»
«Per noi va bene!» – gli dico.
Lui se ne va, dando un calcio al gatto che ci gira intorno.
Poco dopo arriva con i piatti, che ci lancia sul tavolo senza troppi complimenti.
Renato è di poche parole, forse ha un fare brusco, ma non ha mai lasciato nessuno a stomaco vuoto! Lo sappiamo perché ce lo ha detto Suor Giuliana, del convento dove dormiamo.
Casamari e San Domenico testimoniano il lavoro dei monaci nel Medioevo
Dall’Abbazia si sale, tra i campi, verso Porrino, dove ci riforniamo d’acqua. In breve siamo alla Cascata urbana di Isola del Liri. Ritroviamo gli altri pellegrini, intenti a prelevare al Bancomat. Noi proseguiamo, in salita, fino ad uno sterrato che costeggia l’area della Fiera di Sora. Piove. Per fortuna, poco sotto, mentre sto cercando un riparo tra i capannoni, scorgo una pasticceria. Sembra incredibile, in un posto del genere! Le brioche vengono farcite al momento, per cui…ne approfittiamo.
Da qui si arriva quasi subito all’Abbazia di San Domenico. Venne eretta sopra le rovine della villa natale di Marco Tullio Cicerone. Si dice che San Domenico di Sora morì qui e che i suoi resti riposino nella cripta della chiesa. E’ sobria ed elegante: peccato che la strada davanti sia molto trafficata e che ne disturbi la visuale. Una volta entrati sembra di tornare nell’anno Mille. Grazie a queste abbazie, nel Medioevo, i monaci riorganizzarono l’agricoltura, l’allevamento e la cultura di queste terre.
Continuiamo a camminare su asfalto, lungo il fiume Fibreno, verso i paesini di Carnello e di Collecarino. La vista sulla Valle del Liri, che vediamo salendo verso Arpino, accompagna gli ultimi passi di questa giornata.
L’Abbazia di San Domenico di Sora.
Ad Arpino nacquero personaggi famosi: il console Caio Mario e Cicerone
Prima di Arpino, che si fa desiderare, ci affianca un’automobile. La signora alla guida ci domanda se facciamo parte del gruppo che dormirà a «La Torretta».
«No, signora, noi siamo al Caùto e ci vogliamo arrivare a piedi» – le diciamo.
«Ma perché fate questo servizio taxi su un cammino?» – le chiedo.
Lei tace, ingrana la prima e se ne va.
«Perché per loro è denaro. Pensa ai posti dove fino a qualche anno fa non passava nessuno e che, invece, ora, grazie a questo cammino, hanno un flusso costante di visitatori,» – mi dice Teo.
In centro ci sono i resti del decumano e le statue dei suoi cittadini più famosi: Caio Mario e Marco Tullio Cicerone, il grande avvocato, politico e filosofo della Roma repubblicana.
Non fatico ad immaginarlo qui, tra la sua gente, nei rari momenti di riposo.
La statua di Cicerone ad Arpino.
Lucia, la proprietaria del B&B «Il Caùto» (la strettoia), mi rassicura. Lei non va a prendere nessuno e non è favorevole ai gruppi troppo numerosi di «viandanti».
Ha preso anche qualche fregatura, per prenotazioni cancellate all’ultimo, specie nel periodo pasquale, ma non cambia idea.
«Se uno fa il cammino, che cammini» – mi dice.
Siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Dato che ho bisogno di una sistematina ai capelli, mi faccio consigliare una parrucchiera.
Lì mi rilasso, parlando con le signore del posto, mentre Teo prenota la cena in centro, per degustare le mitiche sagne con i fagioli.
Di lì a poco arriva anche Chiara, la pellegrina di Firenze e, alla faccia del Covid, la facciamo sedere e mangiare con noi all’aperto.
L’acropoli di Civitavecchia.
Il cammino si fa selvaggio e inabitato sopra le gole del fiume Melfa
Lasciare Arpino significa arrampicare in corda doppia. In compenso lo spettacolo dell’acropoli di
Civitavecchia, col suo arco a sesto acuto, è un tuffo al cuore, perché mi ricorda Micene e la porta del tesoro degli Atridi!
Camminando tra ulivi, monti brulli e pannelli fotovoltaici - tipici più della Spagna che del Centro Italia – sbuchiamo sulla strada (chiusa al traffico) che, seguendo le gole del fiume Melfa, porta a Roccasecca.
All’entrata del paese natale di San Tommaso D’Aquino vediamo delle fiamme dietro il cimitero.
Avvisiamo i custodi, che chiamano subito i Carabinieri forestali. Purtroppo è solo uno dei tanti incendi che, quest’anno, hanno afflitto i boschi del posto, ci dicono. Poco dopo vediamo un Canadair in azione.
Pausa al laghetto di Capodacqua.
Fa molto caldo. È ora di pranzo, ma dobbiamo continuare fino a Piedimonte, in modo da avere pochi chilometri per l’ultima tappa di domani.
Ci concediamo un panino in piazza a poi di nuovo strada, fino a Caprile e Castrocielo. Il sole picchia. Apriamo gli ombrellini portatili per farci un po’ d’ombra fino al laghetto di Capodacqua.
Di qui mancano 6 km a Piedimonte. Si dorme al Casale Shanti. Domani, finalmente, saremo a Montecassino!
Teo in cammino verso Roccasecca.
Il cammino è lo specchio della vita e, come nella vita, c’è di tutto
Il giorno seguente, percorrendo due ripide salite, arriviamo a Piedimonte Superiore e di lì al Santuario della Madonna delle Grazie. Uscendo dal Santuario vediamo arrivare due automobili.
Scendono i 6 bresciani con altri due nuovi pellegrini. Li accompagna il gestore di un B&B di Roccasecca, molto attivo sul blog degli Amici del Cammino di San Benedetto.
I nostri amici hanno appena saltato i primi 13 km della tappa e cosa fanno? Appena ci vedono cominciano a ridere. Forse per l’imbarazzo?
Poi la signora bionda inizia a dire che sta male e che non può camminare.
«Sono un medico, parlo con cognizione di causa!» – Urla.
«Ma io non ho detto niente!» Le rispondo. E, dentro di me, penso: «Ma anche gli altri sette stanno male? Forse per osmosi?»
Vabbè, niente di nuovo sotto il sole. Il cammino è un po’ come la vita: ci trovi di tutto.
L’ingresso all’Abbazia di Montecassino.
Montecassino e la sua storia insegnano che la rinascita è sempre possibile
Ci rimettiamo in marcia, cercando di goderci in santa pace l’ultima tappa, senza commedie. La mole dell’Abbazia ci toglie il fiato.
«Vedo il monumento alla quinta divisione della cavalleria polacca ed è impossibile non commuoversi per il sacrificio di questi giovani.
Dopo aver parlato con la signora del cimitero, ci decidiamo a salire e entrare. Ci accoglie la parola PAX, proprio sopra l’entrata.
Facciamo il biglietto, prenotiamo la visita guidata e chiediamo il rilascio del Testimonium, che certifica il nostro avvenuto pellegrinaggio.
I brividi mi fanno capire che tutto è giusto e che tutto va bene: ce l’abbiamo fatta.
La visita dura un’oretta. Di originale è rimasto lo scalone e una parte della torre, che - si dice - fu la cella di San Benedetto, quando si trasferì qui da Subiaco nel 529. Il resto è tutto ricostruito.
La Chiesa è anche troppo fastosa, ma il Chiostro del Bramante è magnifico.
L’Abbazia fu distrutta tante volte: dai longobardi, dai Saraceni, dal terremoto del 1349 e dalla battaglia di Cassino del 1944, ma è sempre risorta dalla sue ceneri.
Speriamo sia così anche per questo mondo malato e che la PAX di San Benedetto trionfi su guerre e distruzioni immotivate.
Elena Casagrande
(Fine)
L’Abbazia di Montecassino.
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