Al Mart: Canova tra innocenza e peccato – Di Daniela Larentis
In mostra capolavori provenienti da Possagno, in dialogo con gli scatti di famosi fotografi del XX sec. e una selezione di sculture moderne e contemporanee
Antonio Canova, Venere italica, 1811, Museo Gypsotheca Antonio Canova, Possagno (TV).
Al Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto è da poco stata inaugurata «Canova tra innocenza e peccato», l’ultima importante mostra nata da un’idea del Presidente Vittorio Sgarbi, curata da Beatrice Avanzi e Denis Isaia.
Visitabile dal 17 dicembre 2021 al 18 aprile 2022, è accompagnata da un prezioso ed esaustivo catalogo.
Quello proposto è un percorso espositivo estremamente interessante da diversi punti di vista, un’occasione per dare il via alle celebrazioni per il secondo centenario della morte di Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822).
Erede della perfezione della scultura greca, Canova ha saputo interpretare le istanze di un’epoca inquieta, a cavallo tra due secoli, dominata dall’Impero napoleonico.
La sua ricerca, ricca di rimandi al passato, lascia in eredità un ideale estetico che continua a vivere fino a oggi.
Sgrbi all'inaugurazione mostra «Canova tra innocenza e peccato».
Ed è il Presidente Vittorio Sgarbi, in un passo del suo intervento critico, a sottolineare: «La mostra del Mart di Rovereto si avvale del prestito di alcuni fondamentali gessi, marmi, dipinti della Gypsotheca e, partendo di lì, propone un itinerario di interpreti ufficiali ed eretici, nel mondo della fotografia, sia di studio e d’interpretazione dei gruppi canoviani, sia di conferente ispirazione al tema del nudo femminile e maschile. Il risultato è sorprendente, emozionante, originale e innovativo.
«Ho avuto fortuna, ho voluto continuare il percorso intrapreso con la mostra di Caravaggio in dialogo con Burri e Pasolini, per indicare la connessione tra arte antica e moderna, se non la contemporaneità dei grandi maestri e delle loro idee con gli interpreti del nostro tempo.
«Così si è fatto con Botticelli e così con Raffaello, e ho pensato salomonicamente di affidare ai due responsabili di settore, per l’arte moderna e per l’arte contemporanea, gli accostamenti ai grandi maestri: Raffaello a Beatrice Avanzi, Botticelli e Denis Isaia. In questo Olimpo, e con lo stimolo delle celebrazioni per il secondo centenario, non poteva mancare l’ultimo grande artista classico, Canova.
«E, con la griglia che ho sopra indicato, ho affidato la spartizione del suo corpo artistico a entrambi i curatori, che hanno lavorato in armonia e in concordia, con mirabili risultati, realizzando e superando i miei desideri. […]»
In primo piano opera di Antonio Canova, Ninfa dormiente, 1820.
Divisa in cinque sezioni, nelle quali convivono opere di Canova e di artisti contemporanei, l’importante esposizione muove da 14 capolavori provenienti dal Museo Gypsotheca Antonio Canova di Possagno.
In particolare, trovano collocazione al Mart tre marmi, tre tempere e otto tra le più famose sculture al mondo in gesso: Amore e Psiche, Ninfa dormiente, Endimione dormiente, Le Grazie, Venere italica, Maddalena penitente, Creugante e il Ritratto di Francesco I d’Austria.
Spiega Beatrice Avanzi, in merito alla Ninfa dormiente, datata 1820: «La ninfa, languidamente distesa su un drappo appoggiato su una roccia, è l’immagine di sfinita morbidezza, così come l’Endimione dormiente, il cui modello in gesso fu terminato nell’agosto 1819.
«Il pastore greco è colto nel sonno in cui lo fece sprofondare Zeus, per preservarlo all’amore di Selene, personificazione della luna.
«La dimensione dell’assopimento, della perdita di coscienza – precisa poi – di una fragilità resa ancor più evidente dall’uso del gesso, apre così la strada a istanze che saranno proprie del Romanticismo, alla ricerca di una bellezza non più dettata dalla ragione, ma riverbero dell’anima.»
La curatrice osserva, poi: «Non può sfuggire che negli stessi anni (1818) John Keats, sommo poeta romantico, dedicava a Endimione i suoi versi immortali: Una cosa bella è una gioia per sempre […].»
Intorno a queste figure si sviluppano quindi le intenzioni dei curatori: rivelare il canone canoviano nell’opera di scultori e fotografi contemporanei.
Celebrazione versus negazione, tra innocenza e peccato; da un lato il permanere della tradizione, dall’altro il suo tradimento.
A evidenziare l’esistenza fondante di questa ambivalenza è «Amore e psiche» che al Mart dà il benvenuto ai visitatori in due versioni, una classica, il gesso che Canova realizzò nel 1800, e una contemporanea, l’opera dello scultore Fabio Viale che da alcuni anni sovverte, tatuandoli, i capolavori dei maestri classici.
Fabio Viale, Amore e Psiche, 2021, Courtesy l'artista.
In un allestimento nel quale predominano il bianco e il nero, il vero protagonista è il corpo: da una parte quello perfetto e divino delle opere di Canova, a cui sembrano guardare alcuni scultori del nostro tempo e i fotografi che hanno saputo esaltare le linee e le forme statuarie del corpo nudo. Dall’altra gli artisti che hanno tradito Canova preferendo indagare l’espressività di corpi imperfetti ma non per questo meno intriganti.
I lavori di scultori attivi nell’ultimo secolo, come Leone e Marcello Tommasi, Giuseppe Bergomi, Igor Mitoraj, ma anche i giovani Elena Mutinelli, Livio Scarpella e Fabio Viale, sono espressione di una ricerca che costantemente rinnova, rendendolo attuale, il canone canoviano.
Il grande ambiente centrale della mostra presenta suggestivi dialoghi tra Canova e i più grandi fotografi di nudo del Novecento. In epoche e con mezzi diversi, una vera e propria indagine sulla perfezione della tecnica e della forma, colta e sublimata attraverso il corpo umano.
Sono presenti, fra l’altro, cinque dei celebri Big Nude di Helmut Newton; gli iconici scatti che Jean-Paul Goude fece a Grace Jones; otto capolavori di Robert Mapplethorpe. E ancora, fotografie di Edward Weston, Irving Penn, Horst P. Horst.
Nelle sale successive sono esposti i lavori di fotografi che hanno perseguito ricerche di segno opposto, come Miroslav Tichý, che nella Repubblica Ceca degli anni Sessanta ha catturato, spesso di nascosto, la suggestione di corpi femminili imperfetti, utilizzando una rudimentale macchina fotografica fatta di cartone, cemento e tappi di bottiglia.
I suoi scatti rubati mostrano un’imperfezione che sottolinea il carattere spontaneo, formalmente scomposto e perciò decisamente anti-canoviano della sua opera.
Jan Saudek e Joel-Peter Witkin hanno messo in scena il corpo esaltandone gli aspetti più decadenti e grotteschi; i due artisti si sono ispirati a modelli classici rivisitandoli, secondo una logica che esalta le difformità del corpo e dello spirito.
Un’altra sezione è dedicata ai fotografi che hanno prestato il loro obiettivo alla documentazione e all’interpretazione dell’arte di Canova, perpetuandone la visione ideale: i fratelli Alinari, Aurelio Amendola, Paolo Marton, Massimo Listri, Luigi Spina.
In mostra anche un nucleo di fotografie del recentemente scomparso Dino Pedriali; due celebri sculture appartenenti alle collezioni del Mart: una testa di Adolfo Wildt del 1925 e l’Intervallo di Giulio Paolini del 1985; cinque scatti della serie Ferite di Mustafa Sabbagh che ritraggono i modelli originali delle sculture di Canova a Possagno danneggiati durante i bombardamenti del 1917 (ciclo fotografico selezionato dal Mart nell’ambito del Premio Level 0 nell’ultima edizione di Art Verona).
Esposta anche un’opera scolpita da Aron Demetz, dove la levigata superficie del corpo classico viene intaccata dalla bruciatura, a sottolineare l’oscillazione tra opposte polarità, in un dialogo continuamente rinnovato tra ordine e disordine, integrità e disfacimento, classicismo e contemporaneità.
In primo piano opera di Antonio Canova, Endimione dormiente,1819.
Alcune brevi note biografiche di Antonio Canova
Dopo aver concluso il suo apprendistato nella bottega dello scultore Giuseppe Bernardi, detto Torretti, muove i suoi primi passi nell’ambiente artistico veneziano prima di trasferirsi definitivamente a Roma, nel 1781.
Qui Canova ha modo di approfondire la sua conoscenza dell’arte classica e di affermarsi precocemente come il più acclamato interprete degli ideali neoclassici teorizzati da Winckelmann e Mengs.
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, riceve importanti commissioni dalle principali corti europee, nonché nomine prestigiose come l’incarico del Papa a negoziare il rientro in Italia dei capolavori antichi trafugati dalle truppe napoleoniche.
Un’efficiente organizzazione del lavoro nel suo studio romano gli permette di far fronte ai numerosi impegni.
Canova elabora l’ideazione della scultura attraverso disegni e bozzetti in argilla, quindi realizza in dimensioni reali il modello in creta, dal quale i suoi assistenti ricavano il calco e il modello in gesso.
Come si può vedere in Amore e psiche stanti, sul modello in gesso vengono applicati i chiodini di bronzo che servono a trasferire, con un pantografo, le misure e le proporzioni della figura dal gesso al marmo.
Il blocco di pietra viene sbozzato e lavorato in fasi successive da artigiani sempre più esperti, fino alla rifinitura a opera dell’artista.
Dopo la morte di Antonio Canova, le opere che si trovavano nel suo studio romano vengono trasferite a Possagno, nella casa natale dell’artista e in un nuovo edificio fatto costruire dal fratellastro, il vescovo Giuseppe Sartori.
Nella galleria progettata dall’architetto veneziano Francesco Lazzari trovano posto soprattutto i modelli in gesso e i calchi delle opere spedite ai committenti: una collezione che testimonia, così, gran parte della produzione canoviana.
Antonio Canova, Venere italica, 1811, primo piano dell'immagine di copertina.
Una mostra, questa, che non potrà che sorprendere il visitatore, dove Canova rivive negli splendidi spazi espositivi del Mart, smentendo le famose parole del celebre critico d’arte Roberto Longhi, secondo il quale l’artista è uno scultore «nato morto, il cui cuore è a Frari, la cui mano e all’Accademia e il resto non so dove», come ricorda il Presidente Sgarbi, citando le celebri parole, aggiungendo poi: «Piace rispondergli in chiave accademica, come fa Giuseppe Pavanello: «Longhi scrive questa frase alla fine del Viatico per cinque secoli di pittura veneziana.
«Uno scritto in cui recensisce negativamente anche altri artisti come Giorgione e Tiepolo, tanto che Giuseppe Fiocco, allora docente a Padova, disse che quella di Longhi era l’estrema unzione della pittura veneziana.
«Non bisogna dimenticare che Longhi – prosegue – lancia Caravaggio nella mostra di Milano nel 1951. Tiepolo e Canova appaiono immediatamente come i suoi opposti. Inoltre sono gli anni del neorealismo e si usciva dalla retorica classicheggiante del fascismo. […].»
Una mostra quindi da non perdere, anche, e soprattutto, in periodi bui e difficili come quello che stiamo vivendo a causa della pandemia, perché circondarsi di pura bellezza procura gioia e porta sollievo da ansie e preoccupazioni.
Daniela Larentis – [email protected]
Antonio Canova, Amore e Psiche stanti, 1800. Museo Gypsotheca Antonio Canova, Possagno.
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