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Alex Schwazer, «Dopo il traguardo» – Di Daniela Larentis

L’atleta altoatesino, vincitore alle Olimpiadi di Pechino 2008, racconta i sacrifici, la caduta e la rinascita, svelando episodi inediti della sua vita – L’intervista

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«Dopo il traguardo», edito da Feltrinelli (novembre 2021), è un libro scritto da Alex Schwazer, vincitore della medaglia d’oro alle olimpiadi di Pechino nel 2008 (è l’atleta più giovane nella storia delle Olimpiadi a vincere l’oro nella 50 km di marcia).
Quella che racconta è una storia di passione, di traguardi raggiunti, di cadute e di rinascite, che mette in luce alcuni aspetti inediti della sua vita, a partire da molto lontano, quando lui era ancora un ragazzino che alle sei del mattino, con una temperatura di meno tredici gradi, prima di recarsi a scuola usciva di casa e andava a correre per il puro piacere di farlo.
 
È la storia del coronamento di un sogno, dei grandi sacrifici per raggiungerlo, ma anche quella delle difficoltà affrontate dopo essere salito a soli ventitré anni sul gradino più alto del podio; da quel momento in poi per lui gradualmente cambia tutto, del resto quando ci si trova a vivere un successo di quella portata può essere difficile accettare dei risultati meno esaltanti, ogni sconfitta o aspettativa disattesa si amplifica a dismisura, innescando la frustrazione.
L’incontro con alcuni atleti russi gli dà la conferma di ciò che si dice accada nel loro ambiente, ovvero l’uso sistematico di sostanze dopanti al fine di migliorare le prestazioni fisiche.
 
Scivola a poco a poco in uno stato psichico di profonda depressione, anche la sua relazione con Carolina Kostner non è più idilliaca, si infila in un labirinto intricato dove si sente sempre più solo (andrà in Turchia e per la prima volta acquisterà la sostanza dopante di cui ha sentito parlare, risultando positivo a un controllo a poche settimane dalle Olimpiadi del 2012. Un errore che pagherà a caro prezzo con quattro anni di squalifica).
«Un labirinto – scrive Schwazer – nel quale avevo perso tutto.»

 
È anche la storia di chi si rialza da una brutta caduta e faticosamente, con grande umiltà e determinazione, si rimette in gioco.
Un singolo errore non può certo cancellare tutti i meriti, le fatiche, i traguardi raggiunti, i sogni, i progetti. Ognuno di noi, in contesti differenti e a livelli diversi, ne avrà certo fatto esperienza.
Le persone sbagliano. A ogni modo, chi ha la presunzione di non sbagliare mai sta compiendo il più grande errore.
Leggendo il libro ciò che pare davvero ignobile, usando un eufemismo, è chi sfrutta il tallone d’Achille di qualcuno (che fra l’altro ha già pagato per il proprio sbaglio), cercando con una calunnia di annientarlo, screditandolo in maniera subdola, insinuando il dubbio, ben sapendo che è innocente.
 
A Schwazer nel giugno 2016, a pochi mesi dalle Olimpiadi, cade il mondo addosso nello scoprire di essere risultato positivo a un controllo; la mazzata finale arriva a Rio de Janero, in agosto, quando viene ingiustamente accusato di doping, in merito a quel prelievo fatto parecchi mesi prima. Ripetiamo, «ingiustamente».
Verrà infatti assolto con formula piena "per non aver commesso il fatto" con sentenza del 18 febbraio 2021, dopo aver vissuto un interminabile incubo.
Un periodo difficilissimo anche per chi è abituato a lottare: ricevere un’accusa falsa, essere accusato di un qualcosa senza averlo commesso è davvero pesante da sopportare.
 
«Solo ora ne sono uscito, – scrive. – Sono sopravvissuto a un’imboscata, una macchinazione subdola e crudele che in altri momenti mi avrebbe annientato. Ancora oggi, a distanza di cinque anni, non so come ho fatto a mantenere l’equilibrio.»
Una dolorosa vicenda, la sua, narrata recentemente in un libro anche da Sandro Donati, il suo allenatore (la cui vicinanza è per lui fondamentale come lo è quella di Giulia Mancini, la sua manager, che non lo ha mai abbandonato).
Un invito a riflettere su come sia facile giudicare una situazione senza conoscerla, nonché al dovere morale di sospendere il giudizio in assenza di prove certe.
 
Per capire chi sia davvero Alex Schwazer occorre scavare a ritroso nelle pagine della sua vita, quando all’età di 14 anni, pur praticando l’hockey, si alzava di buonora per andare a correre. Perché lo faceva? È lui stesso a porsi l’interrogativo e a raccontarlo nel primo capitolo del libro, intitolato «Vipiteno. Febbraio 1998»:
«Non lo so neanch’io, a essere sincero. So soltanto che mi piace, che mi fa bene. Mi aiuta a sviluppare una maggiore resistenza fisica, credo. Ma soprattutto mi dà un senso di direzione. Uno scopo. Mi sto impegnando in qualcosa di unicamente mio. Con tutte le mie forze. La fatica, il sudore e il sacrificio sono la ricompensa più grande.»
 
Questo era e questo è ancora Alex Schwazer, un uomo abituato alla fatica che conta al suo attivo, fra l’altro, due bronzi ai Mondiali, un oro agli Europei e nove titoli italiani; non solo è un grande sportivo, un atleta che ha toccato vette altissime, ma è anche una persona dotata di grande umanità. Una persona autentica.
Lo abbiamo incontrato alla presentazione dello scorso dicembre, avvenuta presso la sede del Coro delle Bianche Zime (moderatore dell’incontro il giornalista Marco Marangoni) e nell’occasione gli abbiamo rivolto alcune domande.
 

 
Quando è nata l’idea del libro?
«Ho iniziato a scriverlo nel 2013, l’ho poi interrotto varie volte perché c’era sempre qualcosa di nuovo che volevo inserire. Quest’anno, finalmente, con l’assoluzione del Tribunale di Bolzano ho deciso di concluderlo. Non so se un giorno scriverò i futuri capitoli della mia vita; io credo che adesso, a 36 anni, abbia avuto un senso farlo perché avevo qualcosa da raccontare.»
 
Come definirebbe l’intera narrazione?
«Un libro che può essere letto da tutti, in cui parlo di me come persona, non come sportivo, mettendo in luce aspetti inediti della mia vita. Volevo scrivere un testo comprensibile a chiunque, utilizzando un linguaggio semplice e non tecnico, indirizzato anche a chi non sa nulla di sport.»
 
Quando ha scoperto la passione per la corsa?
«Ho iniziato a correre d’estate. All’epoca giocavo a hockey; il campionato era finito e io continuavo ad allenarmi cercando di migliorare le mie prestazioni, correvo per farmi le gambe, in questo sport tutto è velocità. Mi piaceva moltissimo correre, tanto che a un certo punto è diventato il mio sport preferito.»
 
Chi era l’Alex di quegli anni?
«Era un ragazzo innamorato dello sport. Quando ero a scuola non vedevo l’ora che finissero le lezioni per andare ad allenarmi. Io mi realizzavo nei pomeriggi, quando potevo farlo.
«Non pensavo alle gare, lo facevo per passione, tant’è vero che in diverse gare giovanili non ho ottenuto grandi risultati, arrivavo stanco dall’allenamento. Io non mi allenavo per le gare ma perché mi piaceva farlo.»
 
Lei ha vinto la medaglia d’oro alle olimpiadi di Pechino nel 2008: c’è qualcosa che visualizza, in particolare, di quel momento?
«Ricordo che davanti eravamo in tre. Al 42° chilometro non volevo ancora staccare gli altri due, mi sembrava troppo presto. Arrivato in una zona di rifornimento, ho fatto solo 3-4 allunghi per prendere la borraccia e ho dedotto, osservando l’assenza delle ombre degli altri due atleti, che ero rimasto solo. Allora sono partito, in quel preciso momento mi è scattata l’adrenalina.»
 
La dolorosa vicenda narrata nel libro invita a riflettere anche su quanto sia facile giudicare una situazione senza conoscerla…
«Se sei una persona pubblica devi convivere con questo aspetto, anche se vivere la situazione che ho vissuto è davvero pesante. Personalmente ho sofferto tanto quando Carolina è stata squalificata. Sapevo che lei non aveva fatto nessun errore, era diventato un caso politico.»
 
In questo libro si presenta come uomo, non tanto come sportivo. C’è un messaggio che ha voluto trasmettere, in particolare ai giovani lettori?
«Per i ragazzi potrebbe essere utile soprattutto la prima parte del libro, credo che tanti si possano riconoscere nella mia fortissima passione per lo sport. A un certo punto volevo smettere.
«Tanti ragazzi, secondo me, arrivano a quel momento. Per vari motivi non riescono a emergere, si demoralizzano. Forse con la mia storia potrei insegnare che conviene sempre non mollare. Si fa presto a mollare, ma il più delle volte andar avanti conviene.»
 
Aver avuto accanto Sandro Donati cosa ha significato per lei?
«Ha significato moltissimo. Io mi ritengo una persona sensibile, alla fine ho sempre vissuto lo sport con grande passione, non l’ho praticato perché era solo un lavoro. Ho sempre messo passione in quello che facevo.
«È bello avere vicino a te persone che vivono lo sport come lo vivi tu. Sandro ha vissuto tutto il mio percorso così come l’ho vissuto io, con la stessa intensità, nel bene e nel male.»
 
Può svelarci qualcosa sul primo incontro con sua moglie Kathi?
«Mi è sempre piaciuta, anche se non la conoscevo bene. Ho sempre pensato che fosse la ragazza più bella di Vipiteno, ma quelle rare volte in cui alla sera capitava di incontrarsi in paese, dopo aver scambiato qualche parola a un certo punto lei scappava via.
«Quindi, la prima volta che siamo usciti davvero insieme, appena si è seduta in macchina ho pensato bene di chiudere le portiere con la sicura per impedirle di scendere, un rumore che lì per lì l’ha allarmata e poi fatta sorridere.»
 
Sente di aver chiuso i conti con il passato?
«Sì. Io sono molto orgoglioso della mia carriera. Sono andato molto oltre i miei sogni. Se all’età di 15 anni qualcuno mi avesse predetto il futuro, dicendomi che avrei vinto le Olimpiadi con tutto quello che ne è conseguito, avrei scelto di vivere quel futuro comunque, nonostante i momenti bui e le tante difficoltà incontrate.»
 
Chi è l’Alex di oggi?
«Anzitutto sono una persona che ogni giorno apprezza la vita. Do valore anche a cose che un tempo mi sarebbero sembrate meno importanti ma che invece lo sono moltissimo.»
 
Di sogni ne ha realizzati tanti, ne conserva ancora qualcuno nel cassetto?
«Sembrerà una banalità, ma il sogno da raggiungere, ora come ora, è quello di trovare finalmente un appartamento più grande, dove poter crescere i miei figli.
«Ho una famiglia meravigliosa a cui voglio dedicare del tempo, una moglie e due figli stupendi, Ida e Noah. Nel mio lavoro cerco di trasmettere la passione per lo sport a persone altrettanto appassionate.»
 
Progetti futuri?
«Mi piacerebbe espandere la mia attuale attività, sperando che la situazione legata alla pandemia possa migliorare presto e consentirmi di concretizzare ciò che ho in mente.
«Mi piacerebbe infatti iniziare a organizzare dei raduni aperti a tutti, una sorta di allenamento-vacanza che potrebbe aver luogo in estate nelle mie zone e in inverno in luoghi più caldi. Appena sarà possibile, speriamo presto!»

Daniela Larentis – [email protected]

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