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«Del tempo», a Palazzo Roccabruna – Di Daniela Larentis

La mostra dell’artista trentino Giuliano Orsingher, inaugurata a Trento lo scorso 15 giugno, sarà visitabile fino all’11 agosto 2022 – L’intervista

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Tutte le foto sono di Laura Parolini.

È stata inaugurata innanzi a un folto pubblico lo scorso 15 giugno, nelle splendide sale di Palazzo Roccabruna a Trento, la mostra di Giuliano Orsingher (con versi poetici di Massimo Parolini).
Sarà visitabile fino all’ 11 agosto 2022 nei seguenti orari di apertura: lunedì, martedì e mercoledì: 8.30-12.00; 14.00-17.00; giovedì e venerdì: 8.30-12.00; 14.00-20.00; sabato: 17.00-20.00; domenica: chiuso. Ingresso libero.
 
Giuliano Orsingher è nato a Canal San Bovo (Trento) ed è stato allievo di Emilio Vedova all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Artista vicino alla Land Art, ma non solo, la sua attività creativa ed espositiva dialoga con l’ambiente naturale ed è frutto di un’azione di recupero di materiali ambientali sui quali l’artista agisce spesso con un’azione mirata di modifica minima, pulizia e mutamento del contesto-habitat, inserendo l’oggetto in un nuovo spazio nel quale dargli nuova luce e significanza in una messa a dimora estetica ispiratrice di analogie e connessioni (talora anche ludiche) per lo spettatore-fruitore.
 

 
Le sue sculture, installazioni, disegni prendono vita dai resti naturali recuperati nei suoi vagabondaggi sulla catena del Lagorai; reperti naturali ma anche artificiali, come nel caso dei reperti bellici della Grande Guerra (ad esempio il cappello da Alpino presente in mostra).
Resti, rimanenze, della perenne azione trasformatrice della natura, vegetali, soprattutto, ma anche animali, come nel caso dei palchi dei cervi regali rossi, esposti in mostra, ritrovati sul terreno montano lungo il proprio pellegrinaggio e ricomposti in forma di Corona, simbolo di regalità ma anche di martirio e sacrificio.
 
Opere alle quali Orsingher ha affiancato alcuni splendidi versi sul tema del tempo di Massimo Parolini, imprimendoli a fuoco su cassette e pannelli, restituendoci una riflessione dialettica fra il divenire e l’eterno, fra il tempo spazializzato (dell’orologio) e quello della durata, il tempo della coscienza, di cui l’arte è testimone privilegiata. Il risultato è stupefacente!
Massimo Parolini è nato a Castelfranco Veneto (TV) nel 1967. Si è laureato in Antropologia filosofica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
È docente di materie letterarie a Trento dal 1995.
 

 
Fra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: «La via cava» (LietoColle 2015) che ha vinto nel 2016 il primo premio del Concorso di poesia Nestore (Savona) e nel 2017 il secondo premio del Giovanni Pascoli - L’Ora di Barga; #(non)piove (LietoColle 2018), poemetto dedicato a una giornata di rinascita di D’Annunzio e della Duse ai giorni nostri; L’ora di Pascoli (Fara Editore 2020), poemetto dedicato alla riunione del nido della famiglia Pascoli a Barga; Cerette (Fara Editore 2020, raccolta di racconti (con cornice veneziana). Nel 2019 ha collaborato con l’artista Giuliano Orsingher nella mostra E-VENTO (sull’uragano di Vaia) con il poemetto «Lamento per lo schianto» (Publistampa edizioni - Fondazione Castel Pergine Onlus).
 
Spiega in un passo del suo intervento critico, parlando del tempo: «[…] L’ultimo grande filosofo novecentesco, scomparso da poco, che ha posto al centro della propria speculazione teoretica il concetto del tempo, è il filosofo bresciano Emanuele Severino.
«Nella riflessione del pensatore bresciano, a lungo docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, la follia dell’Occidente sta nell’aver dimenticato la lezione di Parmenide: l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere.
«Il principio di non contraddizione dell’eleate corazza quindi tale verità originaria, anche sul piano logico.
«La follia dell’Occidente – prosegue -è dunque uno sguardo miope e rovesciato, da dicranoi dormienti, che ci ha spinti a pensare e a vivere come se le cose venissero dal nulla e vi tornassero dopo la breve permanenza terrena.
«Ma tale evidenza, per Severino, è pura cecità e follia: ciò che noi vediamo veramente ed esperiamo non è il venire dal nulla e il tornarvici (come abbiamo inteso il divenire temporale) ma solo un essere (nel cerchio dell’apparire) di cui possiamo unicamente dire: è.
«Appare ciò che è da sempre e per sempre, ma non perché sempre situato nella categoria del tempo, bensì perché posto nella linfa a-temporale dell’Essere.
«È l’Eterno a disvelarsi nel cerchio dell’apparire e del nascondimento (questo il vero senso del divenire). Nella coerenza del pensiero severiniano (che trova nei saggi «La struttura originaria», «Essenza del Nichilismo» e «Destino della necessità» i suoi pilastri logici e teoretici più rigorosi) l’opposizione Essere-Nulla è quindi riconducibile all’antitesi originaria fra Eternità e Tempo: ogni ente è e in tal senso è eterno e questo è il suo destino: fare propria questa coscienza, che è la missione di ogni filosofia futura, pone l’uomo al centro della Gioia.
 

 
«Per Giuliano Orsingher – mette in luce Parolini – quella Gioia ha il volto della creazione, a partire da una natura che lo accoglie e gli chiede una restituzione, un atto di chirurgia estetica che curi, con carità, la bellezza spaventata, modificata dal trascorrere dei giorni, dal passaggio metamorfico del divenire, e lo accudisca nel tempo della durata, nel lavaggio aionico del flusso stagionale, accogliendolo, col proprio kraino (fare, in greco) nell’atto sospeso e poetico dell’ esistenza autentica.
«Un rito sacro, di pietas, che parte da uno sguardo che indugia, mentre l’artista-wanderer vaga per la natura con costanza e accosta gli e-venti naturali con rispetto, li seleziona e, come un tanatoesteta ambientale, li ricompone per ex-porli in un luogo nuovo e dare loro una nuova essenza, una nuova possibilità di forma nel cerchio dell’accoglienza della riflessione umana.»
 
Sottolinea Fiorenzo Degasperi nel suo esaustivo contributo in catalogo, spiegando il mondo di Orsingher: «Qui, a Canal San Bovo, c’è lo studio di Giuliano Orsingher, cantore e poeta della natura. Non la natura oleografica e turistica, ma le sue molteplici anime, fatte di acqua, pietra, legno, di silenzi immensi e di fruscii, ma anche di violente tempeste. […]
«Questo mondo interno/interiore è il prolungamento del mondo esteriore e viceversa. In questa geografia mentale prima che psicologica si muove l’artista, camminando lungo i torrenti e i rii, inerpicandosi di malga in malga, immergendosi nelle scoscese foreste del Lagorai.
«Tra un passo e un altro si piega, prende in mano un sasso lavorato dalla corrente, un ramo sbiancato dal sole o una pertica che ha tentato di far concorrenza agli abeti più alti. Sono oggetti che nelle mani sapienti dell’artista diventeranno opere […].»
 
Abbiamo incontrato Giuliano Orsingher in occasione della mostra e gli abbiamo rivolto alcune domande.
 

 
Nell’ottobre 2021 ha trovato sul Lagorai un reperto di inestimabile valore, esposto in mostra. Può raccontarci qualcosa sul suo ritrovamento?
«Premetto che ho una grande passione per la montagna, amo in particolare il Lagorai, il mio Tibet.
«Lo scorso ottobre, dopo essere partito da Canal San Bovo, mi stavo dirigendo con mio fratello Renato, con cui vado abitualmente in montagna, verso cima Busa Alta, lungo un sentiero che conosco benissimo, in quanto lo percorro spesso, quando, in un punto molto ripido all’interno di un canalone, lui ha notato un lembo di tessuto coperto da muschio e terriccio: era un cappello di un Alpino!
«Non c’era nessuno stemma a rivelarne la provenienza, ma dato il luogo del ritrovamento, in quella zona si trovava all’epoca la cucina del Battaglione Cividale, studiando poi alcune foto storiche, abbiamo ritenuto si trattasse del cappello appartenuto a un Alpino di quel Battaglione.
«Ritrovarlo è stata davvero una grandissima emozione! In mostra è esposto intenzionalmente come lo abbiamo trovato.»
 
I palchi dei cervi regali rossi esposti, ricomposti in forma di Corona, che significato veicolano?
«L’opera è intitolata Corona e volutamente richiama la Corona di spine di Cristo, simbolo di regalità ma anche di martirio e sacrificio. Il cerchio è a ogni modo una forma ricca di simbolismi; ogni anno i cervi maschi perdono i loro palchi, quindi l’opera richiama anche l’idea di una forma perennemente diversa, che si ripete ciclicamente.»
 

 
Lei ha affiancato alle sue opere alcuni versi di Massimo Parolini sul tema del tempo, riportandoli su cassette e pannelli…
«È il recupero di un’azione antica, il tipico marchio realizzato a fuoco, le lettere di ogni verso sono state impresse a fuoco…»
 
Durante i suoi vagabondaggi ama recuperare resti naturali, inserendoli poi in altri contesti: cosa significa per lei dare loro nuova vita utilizzando il linguaggio dell’arte?
«Servirsi di oggetti di uso comune cambiandone il significato per creare opere d’arte è una tecnica che è stata utilizzata in passato per trasmettere un messaggio di rottura con le correnti artistiche dominanti; io però non sono interessato a questo tipo di azione, non mi sento artista in quel senso, semplicemente amo cambiare il posto alle cose: esiste già tutto, quello che manca è la giusta attenzione.
«In realtà, prendere per esempio un pezzo di legno nel bosco e far sì che venga davvero osservato, ne venga sottolineata la sua unicità, è la prima azione creativa; ciò che mi piace fare è indirizzare lo sguardo. La natura ti sorprende ed è fonte inesauribile di ispirazione.»
 
Progetti futuri, sogni nel cassetto?
«Una mia opera che non è in mostra è proprio intitolata Sogno nel cassetto: non è ancora matura ma un giorno la esporrò…»

Daniela Larentis – [email protected]

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