Mostra su Banksy a Palazzo delle Albere – Di Daniela Larentis
«Banksy l’artista del presente» è dedicata al celebre artista britannico che si cela dietro all’anonimato, visitabile a Trento dal 19 giugno all’11 settembre 2022
Bansky, Love Is In The Air (Flower Thrower), 2003, Collezione privata.
Lo scorso 19 giugno è stata inaugurata a Trento l’attesa mostra intitolata «Banksy l’artista del presente», dedicata al celebre artista britannico che si cela dietro all’anonimato.
Nata da un’idea del presidente del Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto Vittorio Sgarbi, a cura di Stefano Antonelli e Gianluca Marziani, in collaborazione con MetaMorfosi Eventi, è visitabile nella splendida ambientazione di Palazzo delle Albere fino all’11 settembre 2022.
Esposte una selezione di serigrafie originali, quelle che Banksy considera tracce fondamentali per diffondere i suoi messaggi etici. Sono queste le immagini che hanno decretato il successo planetario di un artista tra i più complessi, geniali e intuitivi del nostro secolo.
«Presentiamo a Trento – spiegano i curatori Stefano Antonelli e Gianluca Marziani – anche una sezione dedicata alla produzione video, ad oggi uno degli aspetti meno noti dell’artista ma non meno importante per intuizioni e messaggi.»
L’esposizione propone un Banksy non commerciale, trattandolo per la prima volta come se fosse uno dei grandi artisti classici.
«Banksy l’artista del presente non è una mostra immersiva di riproduzioni - concludono - ma un’incredibile collezione di pezzi originali e autenticati che permettono agli spettatori di scoprire il misterioso universo di Banksy».
Banksy non è coinvolto in alcun modo nella mostra e non ha fornito alcuna approvazione o supporto né opere d’arte per questo progetto, organizzatori e curatori sottolineano che le opere sono state autenticate e il catalogo approvato dall’ente legale di Banksy, Pest Control Office Ltd., dopo essere state sottoposte a controlli di accuratezza e autenticità.
Del resto nessuna delle mostre a lui dedicate negli anni passati sono mai state autorizzate dall’artista, pensiamo, tanto per citarne due fra le più riuscite, a quella allestita a Ferrara nel 2020, a Palazzo dei Diamanti, e a quella allestita a Milano nel 2018, al MUDEC (ne sono state organizzate nel passato anche a Berlino, in Portogallo, a Mosca, a Miami, a Toronto, a Roma e in numerose altre città).
Banksy è diventato una figura leggendaria, un mito del terzo millennio, e questo anche grazie alle battaglie che porta avanti attraverso la sua arte, al suo dirigersi verso aspetti della realtà che fanno discutere e infervorare gli animi.
Spiega Sgarbi in un passo del suo intervento critico in catalogo: «L’arte di Banksy trova espressione nella dimensione stradale e pubblica dello spazio urbano, realizzando opere che documentano la povertà della condizione umana, le assurdità della società occidentale, la manipolazione mediatica, l’omologazione, le atrocità della guerra, l’inquinamento, lo sfruttamento minorile, la brutalità della repressione poliziesca e il maltrattamento degli animali.
Manipolando abilmente i codici comunicativi della cultura di massa, Banksy traspone questi temi atroci in opere piacevoli e brillanti. In tal senso, gli stencil di Banksy sono espressione di un’estetica diretta «come quella di un manifesto pubblicitario», che li propone alla riflessione di chiunque. […]»
Banksy può essere amato o odiato, tuttavia non lascia mai indifferenti, il fatto poi che le sue opere vengano battute all’asta a cifre da capogiro fa molto discutere non solo il mondo dell’arte, diviso nel giudicarlo.
Facendo un confronto fra la sua arte e quella di Blu, pur avendo i due artisti degli stili completamente diversi, si può anzitutto osservare come siano entrambi accomunati dall’anonimato, dal fatto che i loro pseudonimi siano conosciuti ovunque e che, sempre entrambi, leghino la Street art al messaggio sociale.
Aprendo una parentesi a proposito di Blu, il suo è un messaggio più sofisticato, che arriva mediato dalla forma, l’artista ha pubblicato un libro fotografico senza testo per documentare i suoi lavori, la Street art è infatti un’arte non realizzata per durare, l’uscita di quel volume va letta assumendo questa prospettiva e non come un’operazione commerciale.
Banksy, Golf Sale, 2003, Collezione privata.
Gli street artists comunicano utilizzando vernici, pittura, stencil, bombolette spray. Nell’immaginario collettivo agiscono di notte per non essere visti, scegliendo i muri delle zone più abbandonate.
Quello che fanno molti di loro è illegale perché violano delle norme. Le norme definiscono i comportamenti, stabilendo cosa sia lecito fare e cosa no.
Definire tutta la Street art «illegale» è a ogni modo uno stereotipo da superare, in quanto accanto alla Street art protestataria esiste una Street art del tutto legale, priva della connotazione ribelle, realizzata in spazi autorizzati senza la violazione di nessuna norma.
Interrogandosi sulla questione del reato, scrive Roberto Colantonio, autore di un saggio sulla legalità di questa forma espressiva, intitolato «La street art è illegale? Il diritto dell'arte di strada» (2017, Iemme Edizioni):
«La Street art si è scelta un nemico formidabile: la proprietà privata, l’istituto giuridico più risalente dell’intera impostazione romanistico-napoleonica degli ordinamenti di civil law, il primo “sponsor” con i “pater familias”, allora unici soggetti di diritto, di leggi e regole, con “copyright” sulle dodici tavole.
«Che sia stato cercato o vissuto con la spensieratezza di un’avventura, fatto sta che la Street art ha posto alla proprietà privata una sfida, contestandone le basi come era avvenuto soltanto nel XX secolo. Non tutti se ne sono accorti o, se l’hanno fatto, hanno finito per girare la faccia altrove.»
La questione è assai complessa, va anche detto che quando Banksy (e chi come lui) opera su immobili abbandonati e dismessi, dando voce alla propria espressività e al proprio dissenso, compie un atto che può essere giudicato moralmente giusto anche se è illegale, ma qui si aprirebbe una questione che non vale la pena di indagare in questo contesto.
Un’altra questione, parlando di Street art, è la sua introduzione nei musei e nelle gallerie, un argomento molto discusso che divide sostanzialmente l’opinione pubblica e gli attori coinvolti in una diatriba senza fine.
Banksy, Girl with Balloon, 2004-2005, Collezione privata.
Da azione individuale compiuta illegalmente negli spazi urbani, in maniera spontanea, ha acquistato una dimensione collettiva ed è diventato via via un complesso fenomeno comunicativo entrato in spazi istituzionali.
Pensiamo per esempio a Yasha Young, direttrice del primo museo al mondo dedicato unicamente alla Street art, l’Urban Nation, una sede espositiva inaugurata a Berlino nel 2017 in cui vengono mostrate opere di arte urbana sempre diverse, coinvolgendo artisti da tutto il mondo.
Tornando a Banksy, la sua intenzione è quella di lanciare dei messaggi, quindi le sue opere, i suoi interventi, sono quasi contenuto puro, anche se si è poi caratterizzato da un punto di vista formale e quindi è diventato molto riconoscibile.
L’arte del resto è una sintesi di forma e contenuto, lui è un maestro nel modificare il senso dell’immagine, nel darne attraverso l’inserzione di qualche elemento straniante un significato diverso, quindi nel giocare con le immagini come si gioca con le parole.
Banksy è un artista in qualche modo narrativo, è riuscito a catalizzare l’attenzione su temi di grande attualità, come i conflitti, la lotta contro i poteri forti, attraverso precise prese di posizione. È un rivoluzionario, la sua rivoluzione è una lotta pacifica al capitalismo contemporaneo, alla sorveglianza digitale, allo sfruttamento in tutte le sue declinazioni, alla violazione dei diritti umani.
Banksy protesta contro una società postmoderna la cui immagine idealtipica è, in sintesi, quella che emerge dalla letteratura, ovvero una società ricca caratterizzata da forti squilibri sia all’interno dei singoli paesi che, soprattutto, tra i paesi più ricchi e quelli più poveri.
E questo squilibrio, sottolinea Raimondo Strassoldo nel suo trattato di sociologia dell’arte contemporanea, è motivo di scandalo, di inquietudine e di risentimento.
(Opera non presente nella mostra)
Nel volume «Banksy Wall and Piece», uscito per la prima volta nel Regno Unito (Ed. Century) nel 2005, lo street artist inglese, autore dei testi pubblicati, nel raccontare l’episodio di quando, in una notte d’estate, era andato ad attaccare una serie di poster raffiguranti Che Guevara sul ponte della ferrovia sopra Portobello Road, a West London, Banksy, osserva come «la gente sembra convinta che se ci si veste da rivoluzionari non è necessario comportarsi come tali», concludendo il suo ragionamento con una domanda: «Perché limitarsi a dipingere l’immagine di un rivoluzionario quando invece si può vivere da rivoluzionari?»
I graffiti sono considerati una forma di guerriglia, uno strumento per mettere in scena una vendetta. Lo stesso Banksy utilizza questo termine, una vendetta nei confronti della classe dominante.
Banksy si considera un liberatore, «il cavaliere errante che prende a calci gli idioti per ricordarti che le tue idee sull’arte sono altrettanto valide quanto quelle di chiunque altro», scrive Shove Gary (2019) in Banksy: You Are an Acceptable Level of Threat - Carpet Bombing Culture Edition. «Attacca i poteri forti per ricordare a tutti che hanno il potere, secondo lui l’arte dovrebbe essere democratica, dovrebbe essere accessibile a tutti, non riservata solo a pochi privilegiati.»
Un nucleo di opere che si presta a un’interessante lettura sociologica è quello realizzato dall’artista a New Orleans: nel 2008 Banksy esegue alcuni pezzi con la finalità di sensibilizzare l’opinione pubblica sui ritardi dei lavori intrapresi per ripristinare la città dopo i danni causati dalla violenza dell’uragano Katrina, abbattutasi in quel luogo tre anni prima, denunciando l’insufficiente volontà politica di investire sulla ricostruzione. Si aggirava in quel periodo una figura misteriosa denominata “Fantasma grigio”, il quale aveva l’abitudine di ricoprire con la vernice grigia tutte le opere degli street artists della città.
Banksy, Love Rat, 2004, Collezione privata.
L’uomo che si cela dietro al «fantasma grigio» di New Orleans, è un seguace della «Broken window», teoria del vetro rotto sul comportamento criminale elaborata negli anni Ottanta del Novecento da due criminologi, James Q. Wilson e George Kelling, che decretò la lotta contro i graffiti e la Street art, nell’ottica della politica a tolleranza zero.
Assumendo questa prospettiva, il crimine sarebbe la conseguenza ineluttabile del disordine. I due scienziati esemplificano il concetto, cercando di dimostrare che esiste un legame fra il vandalismo e la violenza delle strade, fra semplice degrado e criminalità, utilizzando la metafora delle finestre rotte: se viene rotto un vetro e non viene poi riparato, il vederlo rotto suggerirà ai passanti che c’è degrado, presto nella zona ne verranno rotti altri e lo stato di abbandono, i graffiti, l’incuria, attirerà tutta una serie di comportamenti illeciti, facendo aumentare la possibilità che possano essere commessi dei reati.
Come evidenzia Shove Gary nella citata pubblicazione («Banksy: You Are an Acceptable Level of Threat - Carpet Bombing Culture Edition»), Fred Radkke è un personaggio noto, ha creato un blog e fondato una ONG iscritta all’anagrafe, la «Operation Clean Sweep».
Banksy manifesta con forza la sua presa di posizione nei confronti di questa teoria, abbracciata da Fred Radkte, il «fantasma grigio» da lui immortalato in diverse opere realizzate proprio sopra gli sfondi di vernice grigia stesi dallo stesso Radkte per coprire i lavori degli street artists a New Orleans.
Radkte aveva all’epoca anche ottenuto l’avvallo del sindaco della città, ma poi era lui stesso stato arrestato poiché effettivamente non si può coprire (in gergo baffare) i lavori degli street artists su edifici privati senza che i proprietari degli stessi abbiano a loro volta rilasciato l’autorizzazione a farlo.
Percorrendo lo spazio espositivo, ci ha particolarmente colpito una fra le più celebri opere-denuncia realizzate da Banksy, un po’ il simbolo della sua presa di posizione contro la crescente militarizzazione e sorveglianza, in questo caso con specifico riferimento all’intervento nella Guerra del Golfo.
Si tratta di Flying Copper, realizzata nel 2003, che ritrae un poliziotto britannico armato in tenuta antisommossa, equipaggiato di un paio di ali, il cui volto è lo smile giallo, la faccina sorridente, famosa emoticon stilizzazione del volto umano.
Banksy, Flying Copper, 2003, Collezione privata.
In mostra a Trento è esposta un’opera di Brad Downey, una riappropriazione delle opere di Banksy (è la ricostruzione ottenuta ricomponendo i frammenti originali di tre grandi Flying Copper sormontati dalla scritta «Every picture tells a lie» (ogni immagine racconta una bugia), recuperati nella sala espositiva di un’importante istituzione culturale tedesca, dove otto anni prima aveva avuto luogo una collettiva a cui avevano partecipato entrambi). Che cosa può raccontarci quest’opera, o meglio, a che a che cosa può rinviare l’opera Flying Copper di Banksy?
Flying Copper è una fra le immagini più iconiche dell’artista: un’installazione del “poliziotto volante» si componeva di gigantesche figure realizzate con la tecnica dello stencil su cartone, appese al soffitto, in occasione della prima grande mostra londinese di Banksy del 2003, allestita in un magazzino nell’East End. Altre sagome fecero la loro apparizione in altri luoghi sempre a Londra.
Secondo una delle più diffuse interpretazioni dell’opera, lo smile contrapposto al fucile rappresenta l’idea di come oppressione e minaccia si possano celare dietro il volto di chi dovrebbe proteggerci.
L’immagine si presta anche ad altre interessanti letture; per esempio a nostro avviso la maschera del poliziotto rinvia anche al tempo dell’infanzia, il suo volto ricorda quello degli omini LEGO con cui gli adulti del presente hanno giocato da bambini, attribuendo loro dei ruoli.
Un omino LEGO non è certo libero di comportarsi autonomamente, non è certo consapevole della sua subordinazione e questa sua natura può rimandare al concetto di dominio di cui parla il sociologo Pierre Bourdieu: in fondo siamo un po’ tutti come quell’omino di plastica, quel poliziotto sorridente che esegue gli ordini, ignari e non del tutto coscienti della nostra condizione, del dominio che i potenti esercitano sulle nostre vite, imponendoci la loro visione del mondo: sorridiamo a chi ci guarda e a chi si aspetta una qualche rassicurazione.
Flying Copper sembra riassumere le contraddizioni di un mondo complesso, richiamando anche il pensiero anarchico di George Orwell, espresso nella sua opera più conosciuta, «1984», attraverso i tre slogan: «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza».
Forse la maschera che indossa l’agente di polizia è anche quella che indossa lo stesso Banksy, sottintendendo che se si vuole dire la verità occorre mascherarla, un paradosso che richiama il disorientamento che manifesta l’uomo contemporaneo.
È lo stesso artista che nella pubblicazione Wall and Piece afferma: «Se vuoi dire qualcosa e vuoi che la gente ti ascolti, allora indossa una maschera. Se vuoi dire la verità, allora devi mentire».
Daniela Larentis – [email protected]
Brad Downey, Flying Copper, 2003-2019.
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